"La marcia dei pinguini", di Luc Jacquet

L'epopea dell'animale più estremo del pianeta, oscilla tra reportage di viaggio, documentario scientifico e documentario narrativo. L'ambiente ostile, ripreso magistralmente, esprime tutto il senso del vacuo bianco azzerante e lo sguardo ricorda che fra la nostra condizione e quella del pinguino c'è solo un sottile velo di parole.

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Negli occhi ancora i capolavori di Herzog (l'ultimo quello al Torino Film Festival 2005, Grizzly Man) dove il cinema non è solo un mezzo ma un metodo che arriva all'intimo del reale per provare a comprenderlo. Gli sguardi (assenti o persi) in macchina degli orsi, protagonisti inconsapevoli del cinema, sono il tragico richiamo alla crudeltà caotica della natura o armoniosa e ciclica bestialità istintuale. Gli animali non sono nostri (né tanto meno del cinema), appartengono a stessi: sono esseri viventi non umani, diversi da noi. Credere che gli animali non umani abbiano pensieri in qualche modo simili ai nostri significa non rispettare la diversità. Significa continuare a credere che l'essere umano rappresenti il vertice del mondo naturale. Gli animali non umani vanno rispettati proprio perché non sono come noi. Herzog ci spinge fino a qui, senza alcun bisogno di insegnare. Il suo cinema non è un "ibrido", dove interagiscono due o più sottoinsiemi cinematografici e due o più consegne di lettura ma, bensì, "ambiguo", dove gli argini discriminanti netti saltano fra la consegna "documentarizzante" e quella "fictionalizzante". L'epopea dell'animale più estremo del pianeta, da sempre soggetto ispiratore dell'immaginario collettivo e filmico, oscilla invece come la tipica andatura antropomorfa del "ping", tra reportage di viaggio, documentario scientifico e documentario narrativo. Gli aspetti geografici (la zona più fredda e inospitale della terra, l'Antartide) sono ripresi magistralmente, esprimendo tutto il senso del vacuo bianco azzerante. È nella scoperta e non nell'invenzione l'elemento creativo: il messaggio è già insito nell'istante stesso in cui si progetta il viaggio e non riemerge solo dopo il "montaggio" delle immagini raccolte. È il viaggio che determina la forma del film. L'Imperatore marcia per il presente e il futuro, mostrando il bianco (la pancia) del ritorno e il nero (la schiena) della partenza: nuota, scivola, cammina, amoreggia e "recita": il regista francese, Luc Jacquet (esperto autore di documentari sugli animali per la National Geographic), riesce a spingersi quasi fino al "biotico", mostrando l'ultima vedetta, forse l'ultimo elemento di vita. Mescola amore, dramma (da brivido gli attacchi ai pinguini dei leoni marini), coraggio e avventura. Del documentario scientifico manca l'indagine sull'infinitesimale attraverso la macrofotografia sfruttata dagli altri grandi autori francesi Claude Nuridsany e Marie Pérennou (Microcosmos, Il popolo migratore, Genesis), ma non certamente mancano gli aspetti eccezionali e sorprendenti del filmato. Del documentario narrativo evidente è l'andamento di racconto (nella versione italiana la voce fuori campo che legge il testo è quella di Fiorello), con una storia da raccontare, quella che si ripete ogni anno, del ciclo riproduttivo, terribile e umanamente inimmaginabile calvario. Apparente preambolo da cartoon, La marcia dei pinguini è un penitente viaggio nella mente silenziosa (fosse stata ancora più silente, con qualche commento in meno…), nell'autocoscienza assente/presente. Sguardo che ci inquieta perché è quello paradossale e conturbante di un' esperienza senza qualcuno che l'abbia effettivamente provata, è lo sguardo di un corpo, e di una mente, che non sa di esserlo; è uno sguardo che ci ricorda che fra la nostra condizione e quella del grizzly o del pinguino c'è solo un sottile velo di parole.                          

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Titolo originale: La Marche de l'Empereur


Regia: Luc Jacquet


Distribuzione: Lucky Red


Durata: 80'


Origine: Francia, 2005

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