La morale e il disincanto: l'Italia di Pietro Germi

Un grande dimenticato, regista abile nel maneggiare i generi e nel passare, con brusche virate, dalla morale alla satira, dalla risata al pianto. Artigiano nobile che non corteggiava la critica giocando all'Autore: sedotto e abbandonato per questo?

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IL MORALISTA E L'ARTIGIANO

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Ah! Il grande falegname! era il commento di Fellini su Pietro Germi, il grande artigiano (e certo uno dei maestri) del cinema nazionale. Personalità bizzarra e spigolosa, moralista fanatico capace della satira più corrosiva, regista-autore al centro e ai margini dei più importanti generi cinematografici italiani, Germi ha nutrito per 4 decenni la storia del nostro cinema, per poi finire, come il personaggio di uno dei suoi film più famosi, sedotto e abbandonato dal suo pubblico.
La sua storia comincia con una difficile ammissione al Centro Sperimentale di Roma, che Germi riesce a frequentare in qualità di aspirante attore, e non di futuro regista. Non si sa quanto questa sorta di ripiego abbia influito sulla scelta di recitare (anche) in alcuni suoi importanti film, ma di sicuro il Germi attore ha una personale impronta che lascia il segno. Interprete virile e sanguigno, per sé stesso ritaglia una figura cinematografica quasi all'americana, piuttosto anomala nel panorama nazionale: l'eroe-antieroe al contempo morale e disincantato, apparentemente integro anche laddove cade in (umanissimi) errori, che ricorda alcuni personaggi di Capra. Non a caso per Il Ferroviere sceglie di usare la voce del doppiatore di James Stewart (Gualtiero De Angelis), lo stesso di quel La vita è meravigliosa che esaltava i valori familiari che il protagonista perde, rincorre e ritrova lungo tutto il film. Un accentuato moralismo, assieme a questo modello di attore americano – sapientemente rimodulato su cadenze italiane – può spiegare il grande successo popolare e periferico dei film più sentiti e sentimentali di Germi, quelli più snobbati dal pubblico urbano. Parliamo di Il Ferroviere e L'uomo di paglia con cui, prima del successo di Quel maledetto imbroglio, il regista inizia a riprendersi dalla caduta in cui era incorso dopo l'acclamatissimo debutto.



Negli anni '40, con soli tre lavori, (Il testimone, Gioventù perduta e In nome della legge), Germi aveva infatti riscosso il caldo favore della critica e, assieme ad altri registi del dopoguerra, ottenuto le ambite sovvenzioni statali. Il primo film, del 1945, inaugura il tema della legge ed è un'interessante riflessione, venata di riferimenti al noir francese e hollywoodiano, sui rapporti tra il singolo e l'etica sociale, alla luce di una malconcia Italia post-bellica. Due anni dopo, Gioventù perduta si allaccia con più forza alla tradizione del noir, inquadrandola in una rivisitazione nostrana e incastonandola nell'attualità: il crimine giovanile che germinava nelle classi borghesi sfociando nei fatti di cronaca di cui erano piene le colonne dell'epoca. In nome della legge (1948), inizio della prolifica fascinazione di Germi per la Sicilia, è invece un film sulla mafia che usa gli sfondi siciliani come Ford avrebbe potuto usare il Grand Canion: sorta di Western italiano ante-litteram, la pellicola rimane impressa tanto per il rigore tecnico quanto per l'ambiguo finale, dove vediamo l'integerrimo protagonista (Massimo Girotti) trovare una sorta di mediazione d'onore proprio con i briganti-mafiosi locali. Ma il successo iniziale di Germi, acclamato al pari dei colleghi del neorealismo (movimento rispetto a cui il regista si terrà sempre ai margini, abbracciando l'attenzione per il sociale ma rifiutandone alcune convenzioni estetiche, in nome di una maggiore libertà espressiva) viene occultato dalla produzione immediatamente successiva. A cominciare da Il cammino della speranza -riflessione melodrammatica ma genuina sul fenomeno degli emigranti italiani, nonché interessante film di viaggio-, accolto da pareri discordanti. Del film Flaiano diceva: Germi vi ha raggiunto i suoi momenti migliori e anche i suoi momenti peggiori, dandoci però nell'insieme un'opera che si stacca dal grossolano panorama corrente e chiede perlomeno ammirazione. Ma il critico nota anche un criterio doloristico che i suoi colleghi rimprovereranno in modo sempre crescente al regista, fino all'unanime stroncatura dei successivi La città si difende, La presidentessa, Il brigante di tacca di lupo e Gelosia, dove spesso è proprio quel gusto retorico ad essere additato come il responsabile delle cadute di stile di un regista dall'indubbia abilità tecnica. In realtà il cinema di Germi si caratterizza per la varietà di un cammino molto personale, incentivato da un totale disinteresse, per non dire avversione, nei confronti della critica accademica -assieme a Fellini ed altri, arrivò addirittura a organizzare un'aggressione poi mai realizzata contro un critico.


Ma con Un maledetto imbroglio (1959) Germi torna definitivamente alla ribalta. Liberamente tratto da Quer pasticciaccio brutto de Via Merulana, il film è un poliziesco (ancora la rilettura italiana di un genere, dopo il western, il noir, e il film-romanzo) dove il regista indossa i panni del commissario Ingravallo, solido braccio della legge allergico (proprio come Germi) ai manierismi di un'alta borghesia finto-colta e viziata, ma immune anche alle affettazioni della popolana Claudia Cardinale – attrice che, come Silvia Koscina nel Ferroviere, Germi contribuisce a lanciare. Il condominio di Via Merulana non è soltanto pretesto per un originale poliziesco all'italiana, ma è anche lo specchio di un campionario umano congestionato e ipocrita su cui, con totale assimilazione tra regista e protagonista, Germi si sofferma con sguardo disincantato e amaro.

 


LA BRUTTA ITALIA E LA MORALE GROTTESCA


Nei '60 avviene invece il salto, brusco e definitivo, verso la commedia satirica e grottesca: ancora una volta il cineasta interpreta un sentire attualissimo, non più tenendosene ai margini (come nella lettura personale del neorealismo), ma aderendo con forza all'osservazione derisoria della borghesia post-boom, e addirittura inaugurando il nome di un genere. Si deve infatti a Divorzio all'italiana (1961) quell' Italian style che definirà in Italia e all'estero un certo tipo di commedia, oltre che una lunga serie di luoghi comuni sul bel paese. Con i titoli degli anni '60 e '70 prosegue l'esplorazione delle relazioni di coppia e familiari, che con il tempo sono state deformate attraverso uno sguardo corrosivo e vagamente accusatorio (una deriva del suo moralismo?). Indubbiamente Divorzio all'Italiana si mantiene ancora in bilico tra il bello (la fisicità di Mastroianni, la splendida fotografia di Carlo di Palma, la terra siciliana corteggiata da un bianco e nero indimenticabile) e il brutto (il tic di Mastroianni-Barone Cefalù, le scene onirico-grottesche, le reiterate ossessioni della Baronessa). Ma tutta la produzione successiva esploderà in un gioco crudele di esaltazione del deforme. In Sedotta e abbandonata, la Sicilia (la stessa terra che appariva in tutto il suo fascino potente e ambiguo ne il testimone e il cammino della speranza) è narrata con un accanimento satirico e un occhio straniante ancora sconosciuti. Satira sociale feroce e impietosa anche in Signore e Signori (1965, Palma d'oro a Cannes, come Divorzio all'Italiana), terzo atto della trilogia sui costumi di una brutta Italietta, dove i vizi di una borghesia bigotta e falsa sono messi in mostra e alla berlina nello scenario di una benestante città veneta. Spingendosi definitivamente oltre, l'ultimo film (Alfredo Alfredo – 1972) indugia con accanimento nelle scene più derisorie e grottesche, mantenendo le promesse delle prime commedie satiriche e dipingendo la famiglia di Stefania Sandrelli in un abbrutimento che in Divorzio all'Italiana appariva solo in embrione: se alla baronessa Cefalù di Divorzio all'italiana basta una breve battuta sul suo amore per la testa del pesce per venire ridicolizzata, la protagonista di Alfredo Alfredo è inquadrata a lungo e insistentemente mentre vi si ingozza senza tregua, né rispetto per la sua stessa bellezza, con una camera che sembra godere della possibilità di mostrare un quadro familiare in tutto il suo squallore.

 


TU ERI TROPPO ASSETATA D'AMORE…


E' interessante, lungo tutta la produzione di Germi, notare l'evoluzione di alcuni temi. Quello della giustizia, presente fin da Il testimone, è un filo rosso che collega il protagonista di In nome della legge all'Ingravallo del maledetto Imbroglio, l'esilarante avvocato trombone pro-delitto d'onore di Divorzio all'italiana al tribunale dove divorziano i protagonisti di Alfredo Alfredo. Pericolante fin dai primi film, sempre minacciata dalla natura dell'uomo e dalle barriere culturali, in Divorzio all'italiana la giustizia acquista definitivamente un'aura grottesca, con l'accorata difesa in tribunale di un uxoricida, in nome del ridicolo articolo 587 (quello che legittima il delitto d'onore) del Codice Penale. E lo stesso film marca la demistificazione dell'amore, altro grande tema del cinema di Germi: Tu eri troppo assetata d'amore, troppo, dice il barone Cefalù alla moglie, ridicola e ossessiva, che ha appena ucciso. E la sete d'amore, sorgente delle scene più esasperatamente comiche del film, è la stessa che in Alfredo Alfredo fa degenerare in odio l'idillio del protagonista con Stefania Sandrelli, qui nei panni di una donna romantica ai limiti del fanatismo. Oltre che in Alfredo Alfredo, la Sandrelli è soggetto-oggetto della demistificazione dell'amore in entrambe le commedie siciliane: in Divorzio all'italiana il suo amore con Mastroianni -in bilico tra idillio e pura attrazione fisica- è sempre calato in una cornice derisoria (una delle sue dolci lettere si mescola a quelle di scherno dei compaesani, un'altra provoca un infarto al padre), e alla fine del film -vera dichiarazione di resa degli idealismi- la giovane sposina abbraccia il Barone mentre contemporaneamente fa piedino a un altro uomo; in Sedotta e abbandonata (1963), l'amore scompare del tutto, lasciando spazio solo agli appetiti sessuali e al cinismo, con una protagonista quasi inconsapevole che prima si arrende al fidanzato della sorella e poi alla bieca morale di paese.
Siamo ormai lontanissimi dal tormentato idillio -extra-coniugale ma a modo suo puro, e tanto imprevisto e fatale, quanto prevedibile e amorale è quello di Divorzio all'Italiana – tra Francesca Bettoja e lo stesso Germi ne l'Uomo di paglia, così come dall'amore coniugale, combattuto ma in ultima analisi rispettato come valore, del Ferroviere. Tenaci e devote ai mariti oltre le avversità, le mogli dipinte in queste due pellicole (entrambe interpretate da Luisa Della Noce) non sarebbero mai  ridicolizzate perché assetate d'amore come quelle di Divorzio all'Italiana e di Alfredo Alfredo. Simile processo di distorsione tocca all'immagine dei bambini. Più vicini al modello melodrammatico che a quello neorealista nei primi film, cardini intoccabili e quasi stucchevoli dell'intreccio familiare nell'Uomo di paglia e nel Ferroviere (dove il piccolo Sandrino è voce narrante), poco a poco i bambini spariscono, per poi ricomparire ancora una volta al servizio del grottesco.  In Divorzio all'italiana diventano il simbolo di un'Italia bigotta dominata dal finto moralismo, che quasi assolve l'assassino Barone Cefalù alla sola vista dei poveri orfanelli lasciati dal defunto amante della moglie. Perché, come dice sornione Mastroianni-Cefalù, in Italia i figli…i figli sono sempre i figli. Analoga funzione in Alfredo Alfredo, dove una gravidanza difficile diventa la buona occasione per abbandonare al suo riposo (e tradire) una moglie isterica, fino a che isterica non risulta essere la gravidanza stessa.

 


AUTORI MODERNI E UOMINI ALL'ANTICA


 Avviato il processo di derisione, abbandonate le dolorose ricerche di una giustizia (etica, sociale o sentimentale) dei primi film, e fatto girare il coltello nella piaga della morale italica, Germi lascia al suo pubblico un'avventura cinematografica che si conclude inevitabilmente con l'amaro in bocca, lo stesso che si nasconde nelle pieghe di quel classico di comicità goliardica e dolce-amara che è Amici Miei, dove Germi, che avrebbe dovuto dirigerlo, figura nei titoli di testa. Tutta l'Italia viene esplorata dal regista genovese, dalla Sicilia di ben 4 film alla Roma periferica e emblematica, anonima e universale di Uomo di Paglia e Il Ferroviere; dal paesello di Serafino alle Alpi venate di epica de Il cammino della speranza. Amante egli stesso delle montagne e dei cori alpini (così come delle osterie, del sigaro e del quartino), Germi affermava di fare un cinema all'antica, cinema per galantuomini, per quelli che ancora portano i pantaloni col risvolto. Forse è per l'ostentazione di questa morale all'antica (di cui le ultime commedie non sono che la deformante deriva), orgogliosamente più vicina ai gusti popolari che non alle esigenze della critica, che Germi è stato spesso dimenticato. E a collocarlo tra gli artigiani (ammesso che questa sia una categoria inferiore) piuttosto che tra gli autori, ha contribuito anche il suo spaziare da un genere a un altro, il suo non legarsi a una sola tematica: bizzarro malinteso italiano per cui si considera deficit autoriale quello che in realtà è un abile eclettismo (basti pensare, all'estero, a Hawks, Lubitsch, Wilder). Resta il fatto che, tolta qualche occasionale retrospettiva e qualche omaggio nelle tv satellitari, Germi non è stato posto sul trono dei Maestri, quelli che in Italia si celebrano come i fondatori del nostro linguaggio cinematografico della maturazione. Che sia dipeso dalle sue posizioni politiche, da un'incapacità ad autopromuoversi, o dalla semplice trascuratezza di un popolo che non sa indignarsi (e dunque, forse, nemmeno apprezzare la levatura morale, ridondante ma sincera, dell'opera di Germi), poco conta in questa analisi. Ciò che importa è puntare di nuovo il riflettore sulle sfaccettature di una filmografia variegata ma coerente, troppo spesso dimenticata nella sua interezza, ma che merita a pieno titolo di figurare sotto la voce Autori.

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