La Notte che mia Madre ammazzò mio Padre, di Inés París

Un compendio dei sottogeneri della commedia “echo en España” che intrattiene piacevolmente senza entusiasmare. Realtà e finzione, meta-cinema e teatro, nuove famiglie e satira

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Un po’ di tempo fa ero a cena con delle amiche e una di loro ha raccontato di quella volta in cui ebbe la pessima idea di invitare a casa sua, per il pranzo di Natale, sia il suo ex che la ex del suo attuale compagno. L’amica ci raccontava quella cena infausta con un certo tono di tragicità e fu allora che iniziai a pensare che in quel drammatico racconto c’era invece una stupenda commedia. Di lì a poco, proprio in occasione di un’altra cena, a casa della produttrice Beatriz de la Gándara, mi decisi di raccontare a lei e a Fernando Colomo quello che stavo iniziando ad abbozzare: una commedia che partiva da quell’aneddoto sugli ex invitati a cena”. Come la regista e sceneggiatrice spagnola Inés París ci ha raccontato in occasione della presentazione in anteprima, il 5 maggio scorso, de La Noche que mi Madre mató a mi Padre nell’ambito della 10a edizione del Festival del Cinema Spagnolo (a Roma dal 4 al 9 maggio scorso), sono le situazioni e i casi della vita reale ad avere fornito lo spunto creativo per la scrittura del suo quarto ed ultimo lungometraggio (A mia Madre Piacciono le Donne, 2001; Semen, una Storia d’Amore, 2005; Miguel e William, 2007).

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Tra vita reale e mise-en-scène

Come a dire, la messinscena cinematografica viene in un secondo momento e rappresenta solo un precipitato su schermo, in una forma spettacolarizzata e destinata ad intrattenere, delle traiettorie e delle dinamiche impazzite che si svolgono sul grande palcoscenico dell’esistenza, millenario teatro pullulante di maschere e personaggi ad animare vicende tragicomiche in un’inesauribile sfilata carnevalesca volta ad esorcizzare dolore, paura e morte, come ne La Lotta tra Carnevale e Quaresima del fiammingo Pieter Bruegel il Vecchio (1559). E la commedia è la confezione cinematografica che meglio si presta al gioco dei rovesciamenti di senso, delle allusioni e delle illusioni, misurando il polso della frenesia contemporanea attraverso la storpiatura grottesca e la caricatura iperbolica. In essa è presente ab antiquo (κωμῳδία, da κῶμος – corteo festivo – e ᾠδή – canto) la componente apotropaica dello scongiuro e del propiziamento, della cerimonia profana del dì di festa che esorcizza la morte attraverso il canto, della falloforia dionisiaca che celebra il trionfo della vita e della natura. E il divertire, che ne costituisce l’obiettivo ultimo nelle formulazioni teoriche più moderne, è da intendersi proprio nel senso etimologico di “di-vertĕre”, “volgere altrove lo sguardo”, “distogliere l’attenzione”, “allontanare da qualcosa”. Una distrazione che, per essere davvero efficace, ha bisogno talvolta di una distruzione, di senso e di rappresentazione: rovesciare una convinzione (e una convezione), prendersene gioco, sbeffeggiarla, sottoporla ad un survoltaggio e ridurla in cenere prima che essa si sacralizzi.

La_Noche_-_Eduard_Mar__a_ensaladilla_10Superati i 40 anni, Isabel (Belén Rueda) è un’attrice teatrale ossessionata da un successo che sembra non arriderle più in uno star system che l’ha relegata ormai ai margini. A non credere più di tanto nelle due doti interpretative è lo stesso marito, Angel (Eduard Fernández), scrittore di romanzi gialli e sceneggiatore, impegnato nel tentativo di mettere in piedi la realizzazione di un film insieme alla ex moglie Susana (María Pujalte), produttrice cinematografica. Una sera, sfruttando la circostanza di una gita fuori città dei rispettivi figli, su consiglio di Isabel, i tre organizzano nel villino di quest’ultima una cena con l’attore argentino Diego Peretti (che interpreta se stesso) per convincerlo a prendere parte alla pellicola nel ruolo di protagonista principale. L’obiettivo di Isabel è quello di convincere Angel e Susana a scritturarla per il ruolo di attrice protagonista e, per farlo, organizzerà qualcosa che le sfuggirà terribilmente di mano. Infatti, l’arrivo inaspettato di Carlos (Fele Martínez), ex marito di Isabel, in compagnia della sua nuova fidanzata, Álex (Patricia Montero), sconvolgerà i piani e metterà in moto una serie ininterrotta di incontrollabili meccanismi a catena.

La Commedia, che passione!

La Notte che mia Madre ammazzò mio Padre (GUARDA il trailer) – campione d’incassi in Spagna e vincitore del Premio del Pubblico al Festival del Cinema di Málaga 2016 – mette in scena un intreccio di relazioni familiari e di colpi ad effetto che si innerva senza soluzione di continuità sul tema della maschera e del doppio, arrivando a rappresentare un incessante accavallamento dei livelli di realtà e di finzione ed invitando lo spettatore ad una parossistica “sospensione dell’incredulità”. Il gioco dei riferimenti cinematografici e degli omaggi ai vari sottogeneri nei quali la commedia pura si è disintegrata nel corso dei secoli (nel cinema, a partire almeno dagli anni Quaranta) è fin troppo evidente. A cominciare dalla sferzante satira della letteratura e del cinema giallo e dalla (volutamente) esasperata “poetica del doppio” con una struttura ad incastro modello scatole cinesi di Invito a cena con delitto (di Robert Moore, 1967), la scelta di ambientare la rappresentazione nel corso di una cena e di proporre una grottesca mise en abyme attorno ad un delitto (vero o presunto?) o ad un pregiudizio (razziale, sociale, anagrafico, performativo) richiama alla memoria numerose altre pellicole: Indovina chi viene a Cena? (di Stanley Kramer, 1967); Una Cena quasi Perfetta (di Stacy Title, 1995); Festen (di Thomas Vinterberg, 1998); La Cena dei Cretini (di Francis Veber, 1998. La pellicola è ispirata ad una pièce teatrale di successo dello stesso regista andata in scena a Parigi per tre anni e ha avuto un remake statunitense, A Cena con un Cretino, di Jay Roach, 2010); Il mio Nuovo Strano Fidanzato (di Dominic Harari e Teresa De Pelegrí, 2004); Cena tra Amici (di Alexandre de La Patellière e Matthieu Delaporte, 2012) fino al recente – e comunque molto diverso – Perfetti Sconosciuti (di Paolo Genovese, 2016).

La pellicola di Inés París, a conti fatti, non inventa nulla, frullando al suo interno suggestioni ed atmosfere che segnano l’evoluzione del genere commedia nel corso del tempo: dalla teatralità rocambolesca e confusionaria della commedia degli equivoci di ascendenza plautina allo spirito leggero e licenziosamente satirico del vaudeville otto-novecentesco; dalla borghese e capricciosa pochade di parigina memoria agli sviluppi brillanti e modernisti della screwball comedy – la commedia di situazione statunitense degli anni Trenta e dei primi anni Quaranta con ritmi incalzanti, personaggi eccentrici, fine umorismo, trionfo dell’ammiccamento e graffianti battute da “guerra dei sessi” – e, ancora, all’esuberanza mimica e fracassona della slapstick, fino alle contaminazioni in chiave satirica con il noir e con il giallo deduttivo della black comedy. Il meccanismo del whodunit è funzionale all’ambientazione della pellicola in un’unica unità di tempo – la durata di una notte – e di luogo – il labirintico villino di Isabel – in cui i sei personaggi (in cerca di attore, parafrasando Pirandello) si inseguono, si spiano, si fronteggiano e si nascondono gli uni agli altri: un espediente da enigma della camera chiusa che strizza l’occhio ad Agatha Christie e alla ponderata raffinatezza di Nodo alla Gola (di Alfred Hitchcock, 1948). Ma la sottile ricerca della suspense e la logica della struttura investigativa cedono presto il passo ad un’esplosione surreale e vertiginosa di trovate e colpi di scena che fagocitano ogni tentativo di ricostruzione credibile del misfatto e la presunta ambizione drammaturgica di base in un vortice grottesco ed isterico di macchiette, tipi psicologici sovraccaricati e personaggi sopra le righe. Soprattutto, La Noche que mi Madre mató a mi Padre non sembra affrancarsi del tutto dal paradigma Almodóvar e da quella muliebre “crisi di nervi”, ormai proverbiale, che ha segnato tempi, modi e stilemi della commedia iberica degli ultimi trent’anni. Prova ne è la stessa riflessione meta-cinematografica di cui si imbeve l’intera pellicola: le surreali prove teatrali di Isabel in apertura da leggere come parodia della seriosità ed autoreferenzialità di certo sperimentalismo fine a se stesso; le continue allusioni all’efficacia del linguaggio filmico e al ruolo degli sceneggiatori che vengono messe, tra realtà e finzione, in bocca ai protagonisti (in particolare ad Angel); la consueta querelle se la credibilità di un attore e di un’attrice debba necessariamente passare attraverso la messinscena dell’evento tragico per eccellenza (la morte) o la capacità di suscitare il riso. E, ancora, in questa ottica sono da interpretare la presenza di un attore (che è anche altro) che si presta a recitare nella parte di se stesso e la circolare scena finale del “film nel film”.

1366_2000C’è da dire, inoltre, che il tocco (orgogliosamente) femminile della regista depotenzia – e forse è un peccato – la carica caustica di certe situazioni, edulcorandole su un piano più lievemente sentimentale, e blandisce l’elsa di certe stilettate che, con un’impugnatura più salda, avrebbero forse sortito esiti più godibili di pura, gratuita e sana “cattiveria” tutta da ridere, laddove – parliamo in termini metaforici – la corrosività del vetriolo sarebbe parsa più appetitosa di un veleno per roditori. Ma La Noche que mi Madre mató a mi Padre è anche una pellicola che dà modo alla sua autrice di parlare delle cose che più ama, come la società contemporanea e la sua frenetica corsa al successo, le nuove famiglie allargate e i moderni nuclei sociali di relazione, come pure i meccanismi di finzione che tutti noi insceniamo nella vita quotidiana, indossando le maschere più opportune a seconda delle circostanze. Allo stesso tempo, la París non esista a sfruttare la sua posizione privilegiata di cineasta per denunciare i connotati di una società borghese tanto apparentemente emancipata e moderna quanto ancora, nella sostanza, retrograda, conservatrice e schiava di pregiudizi, sessista e maschilista. Come, infatti, regista e attrice protagonista ci hanno raccontato. Inés: “Oggi, è un dato di fatto, ci sono pochissime sceneggiatrici, pochissime registe e pochissime produttrici. Il 90 per cento dei posti di potere e dei ruoli dirigenziali, e non solo in Spagna, è occupato da uomini. Trovo che questa sia una grande ingiustizia. Una poetessa diceva che il più grande mistero dell’universo è la vita privata delle donne. Sono presidente di un’associazione spagnola impegnata su questo fronte e che tenta di sensibilizzare su questi temi e di promuovere meccanismi di presa di coscienza del ruolo delle donne nella società”. Belén: “Oggi non si scrivono personaggi femminili di un certo tipo per il solito discorso che ci sono troppi registi e sceneggiatori uomini. Ho lavorato con Inés e con un’altra autrice cinematografica e ho notato che, durante le riprese, spesso gli addetti alle macchine da presa hanno avuto da ridire sulle indicazioni delle registe o hanno continuamente suggerito degli accorgimenti o delle soluzioni alternative. Questo non accade con i registi uomini o, se accade, avviene prima di registrare e in privato. Per una donna, quindi, è molto più difficile e faticoso dirigere una pellicola, forse perché ha le idee molto più chiare di un uomo”.

Un cast che funziona

1Il groviglio inestricabile di ruoli e di gradi parentali tra i protagonisti, con il loro carico di affetti mai spenti, rancori mai sopiti e onerose responsabilità da affrontare controvoglia, costituisce probabilmente l’aspetto più riuscito, esilarante ed efficace della sceneggiatura. Il resto lo fa l’amore dichiarato della regista per i due aspetti più creativi del fare cinema, quelli non a caso più legati alle formule espressive del teatro: la scrittura del soggetto e il rapporto con gli attori. La prima, come già accennato, paga un evitabile dazio alla volontà irrefrenabile di stupire e spiazzare a tutti i costi, ciò che trasforma la parte finale della pellicola in una delirante farsa con passaggi degni del più stravagante lettino da psicanalisi – tra reiterate resurrezioni e improvvisi coming out dal sapore alcolico – e ne indebolisce quella freschezza satirica e brillante che, per un’ora abbondante, aveva sicuramente incuriosito e catturato l’attenzione della platea. Tuttavia, nei termini assoluti di un autentico “poder de la palabra”, la regista dimostra un certo talento e, in fondo, è proprio la specificità affabulatoria della parola e la dimensione tragicomica del suo registro espressivo a costituire la cifra stilistica della sua cinematografia. A questa costruzione tutto sommato efficace e in buona parte riuscita di dialoghi agili, veloci e densi di ironiche sfumature di senso – che ricordano vagamente il nevrotico Carnage di Roman Polański (2011), laddove tuttavia il più sottile e mordace humour transalpino (la pellicola è tratta dalla pièce teatrale Le Dieu du Carnage della drammaturga e sceneggiatrice francese Yasmine Reza) è inghiottito dalla roboante fisicità e dalla sferragliante musicalità di quello spagnolo – si accompagna, infatti, un’ottima progettazione del casting ed una notevole capacità di trasmettere agli attori familiarità, dimestichezza e spirito di squadra nel prestare il volto a personaggi tra di loro imparentati. Le interpretazioni sono infatti degne di nota, da María Pujalte (Libertarias, di Vicente Aranda, 1996; En la Ciudad, di Cesc Gay, 2003) – perfetta nel suo apparente autocontrollo cinico da donna in carriera prima che i fumi dell’alcol ne facciano venire a galla gli istinti saffici e la folle fragilità – a Diego Peretti (protagonista, tra le altre cose, dell’adattamento argentino della fortunata serie In Treatment, ideata da Hagai Levi e remake della omonima serie televisiva statunitense della HBO, a sua volta liberamente ispirata al format israeliano BeTipul. In Italia la serie, con protagonista Sergio Castellitto, è stata prodotta per tre stagioni, dal 2013 al 2017, ed è stata trasmessa su Sky Cinema 1 – tutte le stagioni – e su Sky Atlantic – seconda e terza stagione) – attore e psichiatra nella finzione come nella realtà, esilarante nelle mimiche facciali che gli si scolpiscono sul volto a causa dello shock. La deliziosa Belén Rueda supera brillantemente il “battesimo del fuoco” della prima commedia da protagonista dopo essersi dimostrata tra le più sensibili interpreti della cinematografia spagnola dell’ultimo decennio con prove di notevole spessore drammatico in Mare Dentro (di Alejandro Amenábar, 2004), The Orphanage (di Juan Antonio Bayona, 2007) e Con gli Occhi dell’Assassino (di Guillem Morales, 2010). Su tutti primeggia, tuttavia, uno spassosissimo Eduard Fernández (Che – Guerriglia, di Steven Soderbergh, 2008; Biutiful, di Alejandro González Iñárritu, 2010; La Pelle che Abito, di Pedro Almodóvar, 2011)  – forse il personaggio più credibile della pellicola – alter ego maschile della regista, come lei stessa ha dichiarato.

La Notte che mia Madre ammazzò mio Padre rielabora senza innovare e intrattiene piacevolmente senza entusiasmare. In ogni caso, conferma la vivacità del panorama cinematografico contemporaneo spagnolo, capace di proporre una multiforme scena underground, ancora attratta dal gusto della riformulazione e della contaminazione, e di promuovere internazionalmente pellicole come El Cuerpo (di Oriol Paulo, 2012, mai distribuito in Italia), La Isla Mínima (di Alberto Rodríguez, 2014), Desconocido – Resa dei Conti (di Dani de la Torre, 2015) e La Vendetta di un Uomo Tranquillo (di Raúl Arévalo, 2016).

Titolo originale: La Noche que mi Madre mató a mi Padre

Regia: Inés París

Origine: Spagna, 2016

Interpreti: Belén Rueda, Eduard Fernández, María Pujalte, Diego Peretti, Fele Martínez, Patricia Montero

Distribuzione: EXIT Media

Durata: 93’

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