La notte del giudizio – Election Year, di James DeMonaco

L’efficacia dell’apologo è nell’indefinito e latente senso dell’urgenza, il trucchetto in cui DeMonaco è più bravo: difficile trovare un film più preciso nel raccontare il caos degli States

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E’ vero, come scriveva Emanuele Di Porto sul precedente capitolo della creatura di DeMonaco, che il frammento più interessante del non-proprio-memorabile Anarchy fosse quella trovata in stile Uomo in fuga/Death Race ecc con il gioco mortale nel giardino dei ricchi annoiati trasformato in campo di guerra per la caccia al proletario, unico istante di genuina cattiveria in un impianto che spesso tende a scambiare l’essenzialità stilistica dei prototipi per una mancanza assoluta di brio espressivo.
Il terzo exploit delle nottate dello Sfogo rinnova per gran parte della sua impalcatura lo stesso irritante difetto di non spingersi mai formalmente sul piano dell’immaginario e della visionarietà per paura di tradire l’aspetto diretto e grezzo da b-movie d’assalto un po’ forzato, ma ha la grande lucidità di esplicitare ormai senza alcuna remora il livello (anche ingenuamente) politico dell’allegoria, proprio estremizzando sequenze come quella battuta di caccia all’uomo in cortile del film precedente.
E’ un ulteriore passo di avvicinamento in direzione dei Padri Fondatori Carpenter-Hill-Corman, la cui militanza era in grado però di infiammare ogni immagine, ogni inquadratura, ogni stacco di montaggio, anche se in verità alcuni azzardi decisamente interessanti – come tutta la sezione nella chiesa con il sacrificio umano e lo sniper messicano che punta l’anziano padre d’America – sembrano andare piuttosto nella direzione di alcuni horror indie spietati di anticonformismo crudele di nuova generazione (ad esempio il Red State di Kevin Smith…).

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Solidificare le barricate dell’opposizione di genere porta con sé il rischio di sacrificare eccessivamente le atmosfere dell’orrore postapocalittico a beneficio della grana action, e se lo spauracchio-Cannon (dalle parti degli abissi di Invasion USA) ha sempre aleggiato sulle storie di DeMonaco, stavolta fare del protagonista un bodyguard presidenziale accomuna pericolosamente il tono dell’opera a veicoli cingolati come gli …has fallen: a salvare l’efficacia dell’apologo è il suo indefinito e latente senso dell’urgenza, il trucchetto in cui DeMonaco è più bravo – obiettivamente, come è stato notato da più parti, è difficile trovare un film più preciso nel raccontare il caos per le strade degli States, incentrato com’è su candidate presidenziali donne, minoranze etniche in lotta contro il potere, diffusione plebiscitaria di armi da fuoco, e establishment votato all’annientamento delle classi deboli.

Di episodio in episodio DeMonaco è quasi costretto a mettere a fuoco sempre maggiori elementi di un’intuizione la cui funzionalità sta soprattutto nelle possibilità esponenzialmente eterne delle proprie declinazioni: per adesso pare reggere il ritmo scientifico di un’idea a film così caro ai dettami Blumhouse, sperimentato in un’altra saga che di titolo in titolo si è fatta sempre meno aperta, seppure con una carica eversiva sottotraccia anche maggiore alle Purghe, ovvero i Paranormal Activity.
Sul lato Platinum Dunes, il gioco con le maschere e l’anonimato, l’incertezza del nemico e la battaglia contro le ombre della notte, e una immortalità videoludica da 1-up potrebbero tessere un improbabile filo rosso tra Election Year, Tartarughe Ninja Fuori dall’ombra, e il capolavoro definitivo di questa stagione, 13 Hours di Bay. Bisogna solo capire quanto DeMonaco ci creda per davvero.

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