"La pelle che abito”, di Pedro Almodóvar

la piel que habito
C’è una mutazione in atto nel regista, alla ricerca di quelle aperture verso l’esterno  in cui contemplare oscuri oggetti del desiderio, nei luoghi di riconoscibilità del mélo e in quelli sorprendenti e affascinanti del recente thriller spagnolo. Un cinema nella fase della riabilitazione, non continuo ma pieno di grandi momenti, orientato sulla strada della guarigione

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la piel que habitoNon s’infiamma più come prima il cinema di Almodóvar. Eppure nella sua chiusura claustrofobica La piel que habito  è  pieno di tentativi di aperture verso l’esterno, come non accadeva da Parla con lei. Più che il colore che divampa all’interno dell’inquadratura stavolta c’è la metamorfosi del corpo, che quasi mette in scena la mutazione in atto del cinema del cineasta spagnolo dal museo in cui si era rinchiuso. L’abitazione del protagonista non è più impermeabile come quella di Gli abbracci spezzati. Almodóvar mette in mostra prima l’apparato teorico (il voyeurismo attraverso il quale Vera viene spiata e la sua immagine, quasi come una proiezione, si vede sullo schermo grande) ma poi il suo cinema inizia a riemergere dalle proprie ceneri, in una seconda parte molto più riuscita, nella quale il mélo non divampa del tutto però il suo cuore ha ricominciato a battere. Robert Ledgard  (Antonio Banderas) è un chirurgo plastico rinomato la cui moglie è stata ustionata in seguito a un incidente d’auto. Scopo della sua vita ora è quella di creare una nuova pelle grazie alla quale avrebbe potuto salvarla. Dodici anni dopo la tragedia è riuscito a raggiungere lo scopo. Nel frattempo però ha messo anche in atto la vendetta nei confronti del ragazzo che pensa che abbia stuprato la figlia. A tratti i flashback frenano quegli slanci avvolgenti dove il dolore prendeva forma in grandissimi film come Il fiore del mio segreto e Tutto su mia madre – da cui, forse non a caso, recupera Marisa Paredes nel ruolo della domestica insieme ad Antonio Banderas dal suo cinema degli anni ’80 – ma La piel que habito diventa anche un affascinante esempio di un cinema che tenta di ricostruirsi attraverso frammenti del modello originale (la trasformazione del ragazzo in Vera), contempla la figura come ‘oscuro oggetto’ del desiderio, si muove ossessivamente alle ricerca dei luoghi, che diventano le zone, in cui il genere trova le sue tracce di riconoscibilità (l’inseguimento e il tamponamento della macchina in moto),  si ritrova in territori quasi vergini di grande fascino (il ragazzo richiuso e legato dentro l’abitazione si avvicina a quell’affascinante sporcizia nei migliori esempi del recente thriller spagnolo) e stavolta i suoi modelli cinefili finalmente non sono più quelle ombre ossessive che si proiettano e si espandono nel set, ma quasi accennati anche se nei suoi richiami non ne viene intaccata la divorante passione, evidente nella scena dell’operazione in cui si affaccia Georges Franju con il suo Occhi senza volto. La piel que habito forse è il preludio di un grande ritorno di Almodóvar. Non ancora compiuto, alla ricerca di se stesso. Come i pezzi del corpo da ricostruire quindi, un cinema nella fase della riabilitazione orientato però sulla strada della guarigione.

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Titolo originale: La piel que habito

 

Regia: Pedro Almodovar
Interpreti: Antonio Banderas, Elena Anaya, Marisa Paredes, Eduard Fernández, Fernando Cayo, Blanca Suárez, Jan Cornet
Origine: Spagna, 2011
Distribuzione. Warner Bros.

 

Durata: 117

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