La promessa dell’assassino, di David Cronenberg

Eastern Promises Per Cronenberg l’immagine resta rivelatrice: come se l’ambiguità che generava l’orrore di mutazioni nel profondo date/inflitte allo sguardo sia stata subito annullata dall’evidenza delle cose, una compostezza apparente sempre in realtà sostanzialmente eccedente, che non smette di lasciare spaesati. Quasi fosse una versione russolondinese del sublime dittico di Election a firma di Johnnie To (a questi accomunato anche dal vertiginoso finale irrisolto, inquadratura di chiusura compresa), Eastern Promises finisce così per mostrare ancora una volta la totale gratuità della violenza

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Nel cinema attuale di David Cronenberg la scrittura va facendosi sempre più esplicita e meravigliosamente di superficie: e la partitura di Steve Knight (suo lo script di un film per parecchi versi simile a questo, Dirty Pretty Things di Stephen Frears), così piena di situazioni e battute ‘tipiche’, non permette all’ambiguità che generava l’orrore di mutazioni nel profondo date/inflitte allo sguardo del precedente cinema del regista di palesarsi per non più di pochi istanti, subito annullata dall’evidenza delle cose – i tatuaggi che mappano il corpo di Nikolai (Viggo Mortensen), autista della mafia russa a Londra, chiariscono immediatamente il suo passato di crimini e penitenziari, agli occhi di chi li sa leggere (e proprio un tatuaggio sarà il segno di riconoscimento per chi ha intenzione di eliminarlo); il suo stesso comportamento che ad un certo punto della vicenda pare diventare sempre meno chiaro, viene subito dopo spiegato dalla rivelazione del vecchio poliziotto; le parole fuoricampo del diario della 14enne russa morta di parto su cui sta indagando l’ostetrica Anna (Naomi Watts che accetta con rassegnazione il grigiore del suo ruolo) per decidere le sorti della piccola rimasta orfana, svelano sin da subito la sua condizione di prostituta ‘deportata’ a Londra dalla mafia; le allusioni ad una omosessualità latente di Kirill, il figlio psicotico del boss dei Vory V Zakone, Semyon (Armin Mueller-Stahl) interpretato con la solita verve coatta da Vincent Cassel, sono ripetute volte sottolineate proprio dalla morbosità del suo rapporto con il fido tuttofare Nikolai (“lui non è l’autista: è il becchino”), spesso e volentieri abbracciato, accarezzato, baciato. Ecco che, alla stregua dei due precedenti Spider e History of Violence in cui il regista iniziava a sviluppare questo discorso, per Cronenberg oggi come oggi l’immagine, pur avendo forse irrevocabilmente rinunciato ad una consapevolezza horror di mostruosità dell’animo rese evidenti, non appare nonostante ciò meno rivelatrice. Come nel bellissimo e quantomai fondamentale e ‘teorico’ Black Book di Paul Verhoeven, il (neo)classicismo delle superfici illuminate – con Peter Suchitzky che sembra guardare in alcuni momenti addirittura a Gordon Willis per la compostezza apparente della costruzione di un’inquadratura sempre in realtà sostanzialmente eccedente (si veda la strepitosa sequenza dell’esame di ‘ammissione’ di Nikolai da parte dei vecchi padrini) – si traduce in un’atmosfera costantemente sopra-le-righe che almeno nella prima parte della pellicola non smette di lasciare spaesati: la crudele parodia grottesca del malsano banchetto dei mafiosi nel ristorante gestito dai Vory V Zakone; il quadretto edificante del gruppo familiare di Anna in tranquilla casetta all’inglese; l’omicidio del figlio ritardato di Semyon all’uscita dallo stadio insieme ai tifosi dell’Arsenal, mentre sta urinando su di una lapide passando dal cimitero, sgozzato con la compiaciuta evidenza di un effettaccio truculento realizzato con consapevole artigianato quasi vintage; e soprattutto, il primo quarto d’ora di presenza in scena di Viggo Mortensen, incarnazione insuperabile e perfetta delle intenzioni del regista sin dalla sua prima comparsa nel film, sino a quella strepitosa sequenza ‘chirurgica’ in cui si dimostra ‘pericolosamente cattivo’ spegnendosi una sigaretta sulla lingua mentre continua a sorridere facendo a pezzi un cadavere con le cesoie. Quasi fosse una versione russolondinese del sublime dittico di Election a firma di Johnnie To (a questi accomunato anche dal vertiginoso finale irrisolto, inquadratura di chiusura compresa), La promessa dell’assassino finisce così per mostrare ancora una volta la totale gratuità della violenza, con padrini fatti ammazzare solo per aver indicato qualcun altro come frocio, e un vecchio zio rimbambito, ciarlatano e sostanzialmente innocuo condannato a morte perché autodefinitosi ex-agente del KGB senza darne alcuna prova. Allora, l’attesissima sequenza di lotta nella sauna tra due killer energumeni e insormontabili, e Mortensen completamente nudo, più che il doppio dei corpo-a-corpo nella parte finale di History of Violence, si rivela ancora di più come l’estremizzazione degli scontri di un Bond/Daniel Craig, o Bourne/Matt Damon, totalmente svuotati di senso sino a restare unicamente grovigli di membra avvinghiate l’uno sul corpo dell’altro mentre allo stremo delle forze continuano ad infierire ancora e ancora, morendo e tornando alla vita e morendo ancora, restando ciechi e senza più sangue.

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Titolo originale: Eastern Promise

Regia: David Cronenberg

Interpreti: Viggo Mortensen, Naomi Watts, Vincent Cassel, Armin Mueller-Stahl, Jerzy Skolimowski

Distribuzione: Eagle Pictures

Durata: 100’

Origine: Canada/Gran Bretagna/Usa, 2007

 

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