La salvezza, “verso il sole”: K-PAX, di Ian Softley

E’ tutta una questione di luce: K-PAX; ci mostra il mondo (e il cinema) come se fossimo predisposti ad osservarlo per la prima volta, come se avessimo delle potenti lenti nere a filtrarlo.

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Brandon “Blu” Monroe è tornato. Ci chiedevamo, in effetti, che fine avesse fatto, dopo aver scalato la montagna “sacra” ed essere scomparso nel lago magico, mentre noi vedevamo solo le sue impronte sull’acqua.
Di chi stiamo parlando? Qualcuno ricorderà. Pochi, probabilmente. Perché a volte, troppo spesso purtroppo, i film che sono anime vere, che sono corpi e sangue, cioè persone, scompaiono in un istante, inghiottiti però non dai laghi magici, bensì dalle normative del mercato. Parola che non è certo una parolaccia, ma neppure un verbo. Semplicemente: lo stato dei fatti.
Ed ecco spuntare una storia fantastica, un uomo che ci appare improvvisamente trasportato da un raggio di luce. Perché è la luce il veicolo emozionale che trasporta i corpi, e i cuori, in “K-PAX”. E’ pacifico, “innocuo”, eppure capace di mutare le persone, di cambiare le cose, di porre le storie “da un altro punto di vista”. E’ naturale perciò che finisca immediatamente in un manicomio psichiatrico. Si chiama Prot. Forse è il diminutivo di Porter, il corpo dell’uomo che ha visto morire la sua famiglia massacrata, oppure un abbreviazione di altro, Prot(agonist), “protagonista”, oppure Prot(ean), “mutevole” o chissà Prot(ection), “protezione”. Non lo sappiamo. E non sappiamo neppure se alla fine ci troviamo di fronte a un film che parla di uno schizzato mentale o ad un film di fantascienza. O invece lo sappiamo benissimo, ma proprio non ce ne frega niente. Perché “K-PAX “ci ha insegnato a distinguere le cose, a stare attenti a quelle “vere”, quelle che contano davvero, e a infischiarsene delle regole e dei paradigmi mentali del nostro modo di vivere.

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Qui abbiamo una miscela esplosiva di lavoro e costruzione d’immaginario. Prot arriva dal nulla, in un giorno qualunque, in una stazione ferroviaria. Ma non è suo il punto di vista del film, bensì quello del dottor Mark Powell (Jeff “Starman” Bridges), che è il vero protagonista del film (anche se poi tutti noi stiamo li a guardare esterrefatti e ammirati Kevin Spacey, ma quello è un altro discorso…).
Perché è Powell colui che deve essere salvato, come doveva essere salvato il Dottor Reynolds nel film di cui “K-PAX” è…. un qualcosa (sequel? remake? affiliazione? continuità? forse un semplice “conta(c)t(o)”… ) .
La prima volta che vediamo Powell sta facendo una seduta con un paziente e, annoiato, guarda l’orologio alla parete in attesa della fine della sua ora. E’ annoiato, distratto, un professionista stimato ma evidentemente stanco del suo lavoro. E a casa la famiglia felice con villetta nasconde un rapporto mancato con il suo primo figlio (di “altro letto”), con il quale non si parla più da tempo. In un altro film, il dottor Reynolds è un chirurgo affermato, un po’ yuppie e assolutamente disinteressato al giovane criminale in stato terminale che deve visitare. Ma anch’egli ha qualcosa che lo rode dentro. Qualcosa nascosta nella sua infanzia. Un fratello che sul letto di un ospedale gli aveva chiesto di….lasciarlo morire.
Quando arriva Prot, con le sue storie di alieno proveniente dal pianeta K-PAX, la vita noiosa di Powel viene sconvolta. Come fa un “pazzo” ad essere così credibile e convincente? Come fa a sapere tutte quelle cose di astronomia? Come può comunicare così intensamente con gli altri pazienti del manicomio, con il cane scontroso di casa Powell e far giocare sull’altalena la figlia di Powell come se lo avesse sempre fatto?

“K-PAX “è fondamentalmente ottimista sulla natura umana, così come lo era “Sunchaser”, il film con cui stiamo “giocando”. Solo che per trovare l’uomo bisogna scavare scavare scavare.
“K-PAX” riproduce, nella messinscena di un viaggio fantastico di un alieno all’interno di un manicomio, questo “vero” viaggio interiore, che è quello del dottor Powell che è un uomo che deve essere salvato (come tutti noi, del resto).
E’ proprio questa prospettiva salvifica, di un alieno che ci guarda con curiosità e anche tenerezza, e che sa comunicare con gli umani “distorti”, abbattuti dalla vita, che sono i soli capaci di emozionarsi e fare salti di gioia per la vista di un uccello azzurro, si è questa prospettiva che lega “K-PAX” al film di Michael Cimino, “Sunchaser “(“Verso il sole”).
Port è un alieno né più né meno di quanto lo sia il pellerossa Blue. Entrambi appartengono ad altri mondi, e sanno dove devono andare per tornare a casa. Certo Ian Softley non ha molto a che vedere con Cimino, tanto è (apparentemente) lucido, raffinato e controllato il primo e (apparentemente) irrazionale, caotico e selvaggio il secondo, ma….guardate il viaggio di Powell alla scoperta dell’identità di Prot: siamo lì, proprio lì, nei luoghi desertici dei western esistenziali di Michael Cimino. Ed é proprio lì che Powell scopre (o crede di scoprire) la verità sull’uomo che si crede un alieno. Ma esattamente nel momento in cui Powell assaggia le cure dell’inferno provato da Porter (morto annegato nel fiume, scomparso nel nulla, proprio come Blue….), proprio mentre la sua superiorità razionalistica gli dà le chiavi di lettura del suo paziente (dopotutto quel “K” suona proprio come Key, chiave….e “PAX” non lascia dubbi…) scopre che il vero paziente, quello che deve essere curato, salvato, non è il “malato” Prot, ma egli stesso, il “normalissimo” dottor Powell.

Gioco di specchi, gioco di luci. “K-PAX” ci mostra il mondo come se fossimo predisposti ad osservarlo per la prima volta, come se avessimo delle potenti lenti nere a filtrarlo (troppa luce! troppa luce nel mondo! viene da pensare agli occhiali rivelatori di “Essi vivono”, e a quelli dei “Blues Brothers”, o ancora viene da pensare a una gioiosa metafora del cinema, che “muore” per troppa luce… bisogna saperla dosare). O ancora, come in “Mumford” di Kasdan, ci racconta non tanto (non solo) l’uomo (e il cinema…) com’è, ma come dovrebbe (potrebbe)essere.
“Grazie per avermi salvato la vita” dice Reynolds salutando Blue che si allontana, e la stessa frase probabilmente la pensa Powell, mentre accompagna il “corpo” di Porter su una carrozzella, e mentre finalmente trova la forza per ritrovarsi con il figlio diciottenne perduto.
Ci sono film che hanno bisogno di letture complesse, altri che immobilizzano lo sguardo, altri in cui perdersi, abbandonarsi. “K-PAX”, invece è come una persona: devi imparare a volergli bene. Se sei disposto a questo ti darà la vita, la sua vita e la tua vita, restituita nuova fiammante.
Per il resto questo è un film “da un altro mondo” (come recita il sottotitolo italiano), e ringraziamo le magie visive di Softley per averci restituito le storie fantastiche di Charles Leavitt (lo straordinario sceneggia(u)tore di entrambi i film).

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