La scoperta, di Charlie McDowell

Plot interessante nelle sue intemperie meditative, si sfilaccia in evoluzioni narrative che peccano in quanto a originalità. Uno degli highlights di Netflix del 2017 con Jason Segel e Rooney Mara

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Cosa potrebbe succedere se un team di scienziati scoprisse la prova inconfutabile che l’aldilà esiste? Cosa innescherebbe in noi la certezza di un oltre post-mortem? Nell’ipotesi immaginata da Charlie McDowell e Justin Lader con La scoperta, produzione targata Netflix, quando il dottor Thomas Harbor espone al pubblico dominio questa incredibile verità, il mondola scoperta 3 viene travolto da ondate massicce e irrefrenabili di suicidi. In una società che dopo due anni non è più la stessa, mutilata irreversibilmente nella spinta vitale, immobilizzata da un’evidenza che pur senza saper riprodurre cosa c’è dopo la morte crea fin troppe speranze e aspettative, sono in molti a rigettare la rivelazione di Harbor, primo fra tutti suo figlio Will. Raggiunta l’isola in cui il padre e il suo team di scienziati e adepti vivono rintanati per convincerlo a rinnegare la propria scoperta e fermare le ondate di suicidi, Will incontrerà la problematica Isla e si ritroverà suo malgrado coinvolto nella ricerca di cosa sia, cosa contenga davvero questo aldilà.

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E l’incipit di The Discovery, con il suo ritmo trasognato, meditativo e le atmosfere nostalgicamente opalescenti prende corpo e si raddensa incastonandosi attraverso le scenografie paesaggistiche e umane, sfruttando con interessante estro creativo un teorema molto amato e attraversato dalla narrativa sci-fi. Le implicazioni filosofico-etiche prima, con il suo girare attorno a un quesito mai posto ma che tuttavia aleggia come uno spettro e si infiltra nelle pieghe del racconto: esiste un confine oltre il quale è giusto che uno scienziato abiuri le proprie scoperte? Poi, il tortuoso percorso investigativo che si inanella attraverso indizi e suggestioni visive, che in alcuni frammenti sembrano quasi richiamare la superba poesia del capolavoro di Kore-eda After Life, oppure legarsi in qualche modo al lirismo immaginativo di San Junipero, il sorprendente quarto episodio della terza stagione di Black MirrorEppure, la potenzialità narrativa sprigionata dalle premesse messe in campo dal film, la scoperta 2si smorza stancamente sfilacciandosi nel travaglioso e problematico passaggio alla seconda parte della storia, quando troppi pochi nodi vengono lasciati avvicinare al pettine in un groviglio di giri concentrici e banali evoluzioni. Quando, nonostante la presenza di un cast di tutto rispetto e le possibilità insite nell’utilizzo della fisicità fragile e misteriosa di Rooney Mara, sembrano insomma disperdersi l’energia e l’interesse iniziali portandoci in un microcosmo ben diverso dall’originalità drammaturgica che avevamo assaporato nel film d’esordio del duo McDowell/Lader, The One I Love del 2014.

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