La scrittura è un lavoro contro se stessi – Incontro con Julio Bressane

Viola Chinesa

Il regista brasiliano Julio Bressane, in occasione della recente uscita di Dislimite, prima raccolta in italiano dei suoi scritti edita da CaratteriMobili, ha incontrato il pubblico al Cinema Trevi di Roma. Insieme a lui, il curatore della collana editoriale Liliom Lorenzo Esposito. Hanno partecipato alla conversazione anche Bruno Roberti, Donatello Fumarola e Fulvio Baglivi.

--------------------------------------------------------------
CORSO COMUNICAZIONE DIGITALE PER IL CINEMA DALL'11 APRILE

--------------------------------------------------------------

Julio BressaneIl regista brasiliano Julio Bressane, in occasione della recente uscita di Dislimite, prima raccolta in italiano dei suoi scritti edita da CaratteriMobili, ha incontrato il pubblico al Cinema Trevi di Roma. Insieme a lui, il curatore della collana editoriale Liliom (dall'omonimo film di Fritz LangLorenzo Esposito. Hanno partecipato alla conversazione anche Bruno Roberti (il cui libro Cinema Alchimia Uno costituisce il primo volume della collana), Donatello Fumarola e Fulvio Baglivi

--------------------------------------------------------------
#SENTIERISELVAGGI21ST N.17: Cover Story THE BEAR

--------------------------------------------------------------

 

Lorenzo Esposito: Julio oggi pomeriggio mi diceva che leggendo il libro in questa traduzione italiana di un antologia di suoi testi che lui stesso ha curato e scelto, si sorprendeva a non riconoscersi, come se non l’avesse scritto lui. Le stesse riflessioni sono state espresse per la sua produzione cinematografica, oggi abbiamo parlato di Rua Aperana 52 e O Batuque dos Astros, dicendo appunto che ogni volta che li rivede non sa neanche lui cosa sono e anche il montaggio gli sfugge. Ma nel caso del libro non credo sia solo un problema di traduzione, ma qualcosa che ha a che fare con l’abisso che si crea continuamente tra l’immagine e la parola, questo sfrenato loro rincorrersi, finendo per mancarsi, ma proprio mancandosi, creano. È questo il tema che lancerei a Julio: il rapporto tra parola e immagini, il loro incontro-scontro, nel tourbillon, nell’impatto che cercano, spesso si trovano mancandosi.

 

São JerônimoJulio Bressane: Comincio come sempre dicendo che sono monoglotta. Magari possiamo parlare dopo della questione della traduzione: ci sono traduzioni intersemiotiche e intrasemiotiche, e questa traduzione ricade nel secondo caso. Tutte le traduzioni sono impossibili, come diceva Roman Jakobson, che sosteneva anche che a guidarci nella traduzione è solo il nostro intuito, perché non si può tradurre come uno specchio, ma solo suggerire una forma. Ho iniziato giovanissimo a girare, a undici-dodici anni, e ho realizzato il mio primo lungometraggio a diciannove anni. Ma la scrittura è qualcosa di completamente diverso. Non mi sono mai sentito capace di scrivere. Sono sempre stato un grande lettore, ma se si legge molto prima o poi si arriva anche a scrivere. All’inizio la mia era un’idea abbastanza classica di scrittura: scrivere saggi e altro dove non ci fosse nemmeno una mia parola. In qualche modo ci sono riuscito perché i miei scritti sono il prodotto di una lettura dolorosa (uso questa parola in senso tragico e musicale), la mia intenzione è stata quella di creare uno spazio plastico, dove mescolare le cose in modo intrasemiotico che intersemiotico. Il mio rapporto con la scrittura è unicamente attraverso la lingua portoghese, e la mia produzione ha quindi un rapporto locale con il lettore, cioè fatto quindi esclusivamente per quella piccola comunità linguistica. Gli agenti formali hanno una relazione territoriale con il luogo in cui abito, e ciò che ho cercato di fare si collega con il formalismo della lingua portoghese, che si costituisce come una lingua nazionalista cosmopolita, poiché ci si crea dentro una lingua ma si è in grado di assorbire tutte le mitologie altrui. Mi è costato un enorme sforzo scrivere e tutti i testi che amo e che ho amato sono lontanissimi da me, eppure mi schiacciano. Ho cercato di scrivere in maniera insufficiente, la mia scrittura è piena di lacune. Per me è sempre stato più importante leggere che scrivere, e a dire il vero non avrei mai A Agoniadovuto scrivere. Ci sono talmente ancora tante cose da leggere, scrivere è solo una perdita di tempo. Ci sono talmente ancora tante cose da leggere che scrivere è stata solo una perdita di tempo. Tutte le grandi cose che ho cercato di fare si sono poi rivelate piccole rispetto alle ambizioni che avevo, e di fronte a ciò mi sento impotente. La cosa più importante di questi scritti è il tentativo di creare una connessione tra linguaggi. Si tratta di un repertorio molto privato, frammentato, e ho cercato attraverso il montaggio di trovare ciò che la scrittura volesse dirmi. Ho aspettato nella prospettiva d’attesa della mia stessa voce, perché la cosa centrale è cercare la forza della propria patologia, che è la fonte da cui fuoriesce lo stile. La scrittura deve sempre lavorare contro di te, cioè contro la mediocrità, poiché siamo condannati ad essa. Oggi l’usura del sistema capitalista domina e non c’è più spazio per l’irresponsabilità, l’ozio, l’inutilità, ma è questo l’arte. Le grandi virtù sono oggi i grandi peccati del capitalismo. È la vittoria assoluta della civilizzazione del lavoro, che ha abolito la schiavitù ma ha creato il salario. E noi stessi, che prima o poi moriremo, non avremo la possibilità di non fare nulla. E in un momento del genere l’arte stessa è un arcaismo: l’arte ora esiste solo grazie ai soldi di stato, perché le persone oggi non vogliono l’arte. Siamo condannati alla mediocrità e peggio ancora lo siamo inconsapevolmente. Il problema minato all’interno della società è lo sforzo, non si può far nulla senza sforzo, e nessuno oggi vuole sforzarsi per una qualsiasi cosa. Siamo in un momento in cui non c’è nemmeno un’idea messianica di fine del mondo, che sta ormai finendo da parecchi secoli. Forse qualcosa di tutto questo orrore sopravviverà, ma ci troviamo in un intervallo dove la sopravvivenza viene strutturata.

 

Lorenzo Esposito: A proposito di questa grande fisica spaziale della parola, con cui tu metti in discussione il tuo stesso corpo, qual è il tuo metodo di lavoro quando scrivi? Parti da una singola parola, scrivi di getto? Come lavori?

 

Julio Bressane: Non lo so. C’è qualcosa che mi è data, uno sguardo, una parola per iniziare, e quando inizio cerco di tirarmene fuori, vorrei che la cosa camminasse da sé. Credo nell’ipotesi dell’inconscio, dubito di ciò che conosco. Lavoro tutti i giorni e ho la necessità di questo lavoro, ma il frutto di questo lavoro è un’altra cosa. Tutto quello che ho scritto e filmato non sono cose mie, e lo si fa per questo. Non abbiamo la cosa, e per questo la facciamo. Il fare, da parte dell’artista, è una sorta di orrore: fai cose che non ti appartengono. Non c’è in te un’abbondanza che ti porta a fare, ma un’aridità, un vuoto. Cerco di aspettare le cose, ho uno spirito autistico, il mio è una sorta di autismo riuscito, e per me è tutto molto oscuro e difficile, devo fare degli sforzi enormi per scrivere.

 

Filme de amorBruno Roberti: Ciò che hai detto adesso è un grande discorso sul metodo, che non riguarda il sistema. Quando descrivi il tuo modo di lavorare, aspetti eppure fai uno sforzo. Ti rilassi aspettando, apparentemente non ti sforzi, eppure sei in una tensione e quindi usi la parola lavoro in questo senso, non in senso salariale, ma nel senso bataillano di spreco, di scarto. E mi viene in mente un motto rinascimentale: Festina Lente, cioè affrettati lentamente, e lo collego all’elogio dell’ozio che tu fai, che è un ozio antico, virtuoso, produttivo. Warburg ha messo in questione l’immagine come pathos, patologia e Benjamin ha messo in questione l’immagine en fuite, in fuga, l’immagine che fugge. E nei tuoi film c’è sempre qualcosa che patisce: quando parli di lettura dolorosa penso ci sia anche un girare doloroso, ma il dolore non è sofferenza in questo caso. Il dolore dell’immagine, che trema sempre nei tuoi film, penso a São Jerônimo o a Filme de Amor, è qualcosa che si libera, che vola, che fugge, che va alla deriva. Qualcosa che appunto dislimita. Ma il suffisso dis, come in dissociazione, non implica l’assenza del limite o dell’associazione, ma implica una sorta di apertura continua, di ferita continua.

 

Viola ChinesaJulio Bressane: Quando parlavo della sopravvivenza e dell’intervallo, penso che il problema oggi sia il fatto che ci sia uno spossessamento delle forme simboliche, a cui bisognerebbe dare un altro senso. Ma questo ci porta ad un altro problema, il problema del pastiche nella scrittura, che è un problema ancora più difficile. Il pastiche ti porta a pensare che l’autore padroneggi la scrittura, ma si tratta di una doppia difficoltà, perché bisogna conoscere lo scheletro della scrittura che andrai a produrre, e si tratta di un livello più avanzato di scrittura. C’è un verso di Pessoa, il grande scrittore portoghese che nonostante sia tradotto in tutte le lingue rimane un poeta senza traduzione, che dice: Não sou eu quem descrevo. Eu sou a tela / E oculta mão colora alguém em mim. Questa è una chiave per la creazione schizofrenica, la moltiplicazione del soggetto, il frammento che si moltiplica all’infinito. Questa è la caratteristica centrale della poesia occidentale, la schizofrenia. E questo è l’atto di passaggio, perché cerchiamo di mettere sulla pagina qualcosa che si conosce poco. Il lavoro della scrittura è sempre provvisorio, che dipende dal momento, è sempre in cambiamento. Il testo arriva a essere scritto, è solo un indizio di una matrice centrale che produce il significante anagrammatico. Per un anno mi è capitato di sentire al telefono la voce di Borges: all’epoca, nonostante fosse già famoso, era un uomo solitario, abbandonato. Era come un unicorno, un essere sovrannaturale. Aveva una voce molto calma, nonostante la balbuzie, ma anche molto artificiale. L’ho cercato perché volevo acquistare i diritti di una sua storia di quattro pagine su Billy the Kid, ma lui continuava a ripetermi che non era un suo prodotto, che aveva solo copiato qualche riga da altri scrittori. Io insistevo, e un giorno mi disse che aveva già trattato il mito di Billy the Kid in un suo sonetto su Spinoza. Sosteneva che un sonetto di sedici versi fosse già una storia di quattro pagine scritta anni dopo. Era un enigma per me, diceva che aveva cercato una sonorità della lingua spagnola che connettesse due personaggi estranei ad essa. Questa era forse una bizzaria, ma aveva qualcosa di vero. Borges cercava di dare un significante della lingua spagnola a questi due segni diversi, e per me questa è stata una grande lezione di montaggio, ossia mettere insieme cose che sono separate, e quando le si mette insieme diventano una proiezione futurista, in questo caso della lingua. Hai ragione quindi a dire che si tratta di metodo non sistematico, è cosmocaos.
 

--------------------------------------------------------------
CORSO ONLINE SCRIVERE E PRESENTARE UN DOCUMENTARIO, DAL 22 APRILE

--------------------------------------------------------------

    ISCRIVITI ALLA NEWSLETTER DI SENTIERI SELVAGGI

    Le news, le recensioni, i corsi di cinema, la riviste, i libri, gli eventi e tutte le nostre iniziative


    Array