La teoria svedese dell’amore, di Erik Gandini

Il film di Erik Gandini ci affida una possibile visione del futuro con l’azzeramento dei sentimenti. Un cinema disturbante che attualizza l’apocalisse

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Sembra di entrare in un passaggio sempre più oscuro, sembra di attraversare un terreno che si fa sempre più insidioso. Se non altro va riconosciuto a Erik Gandini, regista e sceneggiatore di La teoria svedese dell’amore, film-indagine-documentario-pamphlet, la capacità di avere costruito un percorso che da una iniziale e presunta ironia, ci conduce ad una serie di serissime conclusioni. Tutto accade in una delle collettività che ha fondato la propria struttura sociale proprio sulla indipendenza dell’individuo, che costituisce il caposaldo per una totale autosufficienza.
La Svezia è un Paese che fin dagli anni ‘70 del secolo passatola-teoria-svedese-dellamore ha valorizzato i principi di liberazione dai bisogni. Questo è accaduto non soltanto nella sfera sessuale con una libertà divenuta proverbiale, ma, come ci racconta il film, perfino da quei bisogni che solitamente sono soddisfatti da una comune solidarietà familiare. Un processo pianificato e frutto di un manifesto politico che in un’ottica di un migliore benessere, rispetto a quello già molto alto conquistato dal Paese scandinavo, guardasse alla famiglia del futuro rivoluzionandone l’antiquata struttura. Lo scopo era quello della autonomia, dell’indipendenza con il fine ultimo di creare una società di individui liberi dal bisogno dell’altro. L’affrancarsi gli uni dagli altri e soprattutto liberare gli individui dai bisogni ha portato a teorizzare che le donne si sarebbero dovute liberare degli uomini, gli anziani si sarebbero dovuti affrancare dai figli e questi ultimi dai genitori. Si è creato quindi un ordine sociale in cui il valore primario è stato quello di un progressivo svuotamento delle relazioni e un altrettanto progressivo affermarsi di una società di individui autosufficienti, perfino nei sentimenti. Questa società del futuro è la visione del progresso sociale. Gandini si serve della propria voce off per sottolineare l’escalation delle conseguenze di queste teorie. La linearità paradossale delle teorie dell’autosufficienza individuale sembrano riflettersi sulle immagini nel particolare imprinting che Gandini affida ad ogni singola sequenza. Immagini che sembrano rivendicare a loro volta una propria indipendenza con la capacità di fare assumere al film l’aspetto di un racconto di fantascienza come accade ad

la-teoria-svedese-dellamore-baumanesempio nella lunga e inquietante sequenza dell’autoinseminazione. Un film che lavora quindi molto nel sottovuoto delle immagini, in quello spazio in cui prolifera o può proliferare l’immaginazione, con una ricerca non secondaria rispetto al tema della narrazione. Un cinema che si fa sognante a volte con l’uso frequente di obiettivi che imprimono una particolare impronta al fotogramma.
Il racconto di Gandini si fa pessimista, nella scelta di teorie che consegnano l’individuo alla solitudine, deprivandolo di ogni sentimento. È davvero questo un cinema dell’apocalisse che racconta dello sgretolamento di ogni relazione, un cinema che disegna un futuro che si atteggia nella realtà concreta e non solo frutto di tutto quell’altro che ne ha solo immaginato l’avverarsi.
Il tratto comune degli svedesi sembra essere quello di una ricerca della solitudine, quell’isolamento che, nel mito dell’autosufficienza, permette alle donne sole di generare i figli ordinando il liquido seminale come se fosse una pizza, con la consegna quasi immediata del prodotto e con le istruzioni necessarie per l’uso, il kit di utilizzo e con la conclusione, nel giro di mezzoretta, dell’intera operazione. Senza o quasi sforzo, impegno, sudore e sentimento. Una solitudine che pone una distanza da ogni sentimento. L’eliminazione di ogni problema sentimentale dal tema riproduttivo, esclude anche ogni bisogno di mantenimento della popolazione maschile che resta attiva al solo scopo della produzione del seme da utilizzare. Finalmente le donne resteranno prive di ogni legame, da ogni peso sentimentale e di ogni fastidioso desiderio sessuale. Quello maschile non sembra essere contemplato.
Una isolamento dell’individuo che si aggrava con le morti in solitudine scoperte dopo varie settimane. Corpi che restano abbandonati da qualche parte in un appartamento si aggiungono alle altre solitudini del sistema il cui scopo sarebbe quello della ricerca perfezione sociale.
C’è chi combatte contro questo sistema insostenibile la-teoria-svedese-dellamore-2015ritirandosi nei boschi, oppure andando a svolgere operazioni umanitarie nella assai imperfetta Etiopia, nella quale salvare una bambina da un tumore deformante e ricevere il suo abbraccio e il suo sorriso ripaga di ogni giornata perfetta al riparo dalle conseguenze dei sentimenti.
Siamo in un Paese senza fame, in un’atmosfera completamente asettica e priva di ogni germe vitale che infetti i rapporti e produca le normali frizioni che conseguono ad ogni rapporto, ma che nello stesso tempo produce di volta in volta la scintilla vitale che in Svezia sembra essersi spenta. Il film di Gandini si conclude sulle parole dell’anziano sociologo Zygmunt Bauman che ci avverte che la felicità non è nel non avere problemi, ma la felicità arriva dall’averli saputi superare. La teoria svedese dell’amore, è in fondo un film sull’infelicità e sulla sua inconsapevole ricerca, un film inatteso, disturbante che ci restituisce in pieno il peso insostenibile della aspirazione alla perfezione.

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Regia: Erik Gandini
Distribuzione: Lab 80 Film
Durata: 76′

Origine: Svezia, 2015

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