L’accabadora, di Enrico Pau

Un minimalismo in sottrazione che ci restituisce brandelli smozzicati delle storie che attraversa, il film vive per sprazzi di grande suggestione quasi metafisica ma vanifica ogni tensione interna

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Il fermo rifiuto di uno sguardo antropologico continua ad essere una costante nel cinema di Enrico Pau, come già nei racconti dei precedenti Pesi Leggeri e Jimmy della Collina, che rifuggivano con forza la tentazione di farsi indagine accademica-scientifica delle situazioni messe in campo, la palestra e la comunità di recupero.
Qui, il ritratto dell’esistenza in pena di una accabadora, le donne che nella Sardegna rurale praticavano una sorta di eutanasia ancestrale mettendo fine alle sofferenze dei malati terminali, non pone mai l’attenzione sulla ricerca di una ricostruzione possibile delle pratiche quotidiane e delle modalità “professionali” di una figura sulla cui effettiva esistenza l’antropologia ufficiale si interroga da sempre, se non nello spazio di brevi flashback evocativi lasciati lì in un limbo tra sogno e rievocazione, forse gli elementi più deboli di tutta la struttura dell’opera.

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E’ come se, vagando per questa narrazione sospesa tra le macerie della Cagliari sepolta dai bombardamenti, abitata da ombre sfocate che si trascinano con muta disperazione nell’indefinitezza di un presente scandito solo dalle pause tra una sirena d’allarme e l’altra, Pau stesse in realtà cercando qualcos’altro, e precisamente – ancora una volta – la possibilità e la capacità del cinema di avverare il Mito, confermare la storia. Il regista si serve infatti delle storiche riprese, ad opera del cineamatore Marino Cao, della processione di Sant’Efisio che sfilò sguarnitissima nel 1943 nella città disabitata e sconvolta dalle rovine ammassate per le strade, per infilarci dentro la prova del passaggio, la traccia definitiva della sua creatura protagonista, immortalata dal bianco e nero della cinepresa tra i fedeli in marcia.
Tutto L’abbacadora sembra vivere in attesa di questi attimi finali, sacrificando a questa fascinazione teorica e cinefila tutto il resto, qualunque appiglio per lo spettatore all’interno di una vicenda votata ad un minimalismo in sottrazione che ci restituisce solo brandelli smozzicati delle storie che attraversa (come i ripetuti squilli muti di telefono nella villa vuota dove vive la donna), e qualunque concessione ad una messinscena che travalichi anche solo per un attimo una compostezza formale estrema e consapevolmente disumana, tutta basata sul chiarore dei palazzi crollati e la spietatezza similmente abbacinante delle rocce, e su come sia possibile ritrovare la stessa spigolosità del paesaggio nelle figure che lo abitano, dunque nei volti scavati di Donatella Finocchiaro, Carolina Crescentini, Sara Serraiocco.

L’esperimento vive per sprazzi di grande suggestione quasi metafisica (interessante per dire anche il confronto giusto suggerito in chiusura tra medicina e “rimedi primordiali”), ma finisce così per vanificare qualsiasi tensione interna, e raffreddare sensibilmente il tremendo patema d’animo delle protagoniste, nonostante il comune sforzo interpretativo (chiarificatrice forse in questo l’evidente attrazione dell’obiettivo nei confronti delle statue): il risultato rimane allora profondamente dilaniato al suo interno, tra le aperture dal respiro un po’ più ampio, quasi “placidiano” (Del Perduto Amore), e gli obblighi punitivi di una sorta di espiazione estetica, di autodafé formale, a cui lo sguardo di Pau appare dolorosamente votato.

 

 

Regia: Enrico Pau
Interpreti: Donatella Finocchiaro, Barry Ward, Carolina Crescentini, Sara Serraiocco, Anita Kravos, Camilla Soru, Piero Marcialis
Origine: Italia, 2015
Distribuzione: Koch Media
Durata: 86′

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    Un commento

    • Gabriele Floris

      . Ho visto il film. Complimenti . Attuale e stimolante per una conversazione. Fotografia splendida. Qualche frame con scena che ricorda Caravaggio. Il Bombardamento su Cagliari e Sant’Efisio da brivido.
      Molto interessanti i dialoghi sul senso del dolore innocente , la censura dello sguardo del crocifisso , la tradizione religiosa nella incapacità di una adesione cordiale e personale, eppoi la delega irresponsabile a chi senza affetto può farti fuori. Temi che a me sono molto cari.