"L'albero della vita", di Darren Aronofsky

Bolle di vetro da souvenir. Punti di sutura naif tra pretenziosi salti temporali. Tentati quadri che non interessano. Forse non abbiamo capito. Forse Aronofsky voleva una elegia dell'immaginario kitsch

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Peccato scomodare i Padri Fondatori per così poco. Non sappiamo se possa arrivare loro qualche eco di L'albero della vita, ma speriamo sinceramente di no. Soffocante e appiccicoso come il bronzo improbabile della sala operatoria in cui si muove il protagonista, né spettacolare né spirituale, finto come è difficile che il cinema riesca ad essere, pieno di artefatti che non stupiscono, talmente insignificanti che è arduo persino criticarli. Così è l'ultima fatica di Aronofsky in Concorso al 63° Festival di Venezia. Basta un pugnale con le decorazioni allineate alle stelle per raccontare i nativi del Centro America? La civiltà Maya è una bolla di vetro, quelle da souvenir con la neve dentro. Lì l'eroe (?), interpretato da Hugh Jackman, una caricatura della spiritualità sospeso in posizione yoga in qualcosa che non è né luogo né non-luogo, che nelle intenzioni del regista sarebbe un lontanissimo futuro e sembra solo un delirio nella peggiore accezione del termine, senza senso, senza emozione, senza possibilità di cattura. Allo stesso tempo, oggi, è uno scienziato che osa esperimenti con cortecce d'albero guatemalteche per sconfiggere la malattia e la morte. E poi nel terzo piano temporale c'è un conquistadores spagnolo faccia a faccia con una piramide Maya che sembra la brutta copia di Viggo Monterssen in Il signore degli anelli (così come la protagonista femminile, Rachel Weisz, sembra proprio voler ricordare Liv Tyler). Sì, perché il film lega insieme tre epoche diverse, ma non fa funzionare neanche le potenzialità del gioco temporale; prova furbescamente a strizzare l'occhio all'estetica da fantasy ma non potrebbe essere più lontano dalle sue atmosfere, mentre nella parte storica è tanto improbabile quanto tirato via. E che cosa sono quelle accelerazioni della soggettiva di Jackman che legge il manoscritto di sua moglie? Punti di sutura naif tra pretenziosi salti temporali. Aronofsky sperava di sorprendere? Non riesce neanche a emozionare, davvero in nessun punto del film: se ne resta al di là dello schermo con i suoi temi: cancro, vita, morte, immortalità, amore, inquisizione, antiche civiltà, senso della Storia, simbologia varia accozzata – che avrebbe potuto trattare almeno in modo superficiale. Voleva, poteva creare angoscia? Domande? Riflessioni? Non ci riesce. L'albero della vita  è vecchio. Come la sequenza di un occhio di bue che diventa una sfera e poi una decorazione circolare. Non funziona a livello di sceneggiatura, confuso probabilmente come le idee che l'hanno concepito. I suoi tentati quadri non interessano. Come non interessa il finale con escrescenze, insopportabilmente new age. Forse non abbiamo capito. Forse Aronofsky voleva una elegia dell'immaginario kitsch.

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Titolo originale: The Fountain


Regia: Darren Aronofsky


Interpreti: Hugh Jackman, Rachel Weisz, Ellen Burstyn, Stephen McHattie


Distribuzione: Twentieth Century Fox


Durata: 96'


Origine: Usa, 2006

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    Un commento

    • Non sono affatto d'accordo. C'è veramente molto altro di peggio girato e di "kitch". Per chi è sulla stessa onda di sensibilità colpisce e lascia il segno.
      Il suo messaggio di vita e mortalità passano in ogni frame. Mi spiace che tu non lo veda.