"L'amore di Marja", di Anne Riita Ciccone

Il cinema della regista arranca nella definizione degli spazi intermedi, in un'atmosfera di mediocrità stilistica che banalizza movimenti e tensioni familiari

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Vi è l'ennesimo ritorno agli anni Settanta nel secondo film di Anne Riitta Ciccone. Dopo Le sciamane infatti (anche lì ci si muoveva a ridosso di una stagione temporale identificabile con quegli anni), pare che l'universo filmico della regista subisca una sorta di fascinazione nei confronti di un cinema volutamente ricostruito, nel decor, nella scelta di alcuni interpreti e soprattutto nella manifesta volontà/urgenza di ribadire in primo piano dei temi centrali (la libertà della donna, il suo collocamento all'interno della società e della famiglia). In questo senso allora ne L'amore di Marja si avverte una certa coerenza di fondo che porta la Ciccone ad imprimere sui corpi raccontati una sorta di filo rosso che li lega a quelli del film precedente (interessante a questo proposito l'ennesima presenza di Nino Frassica) anche se in questo frangente è come se la fisicità a volte anche interessante de Le sciamane venisse spezzata dal ricorso eccessivo ad una teatralità di fondo a volte opprimente. Sembra che infatti la regista italo-finlandese si serva del preteso di base (peraltro ispirato ad una sua opera per il teatro) per raccontare una posizione etica e morale che scavalca i personaggi, soffocandone ogni tipo di vera libertà. L'inizio ha allora una sua precisa forma visiva (la protagonista finlandese che col marito siciliano e i figli si trasferisce in Sicilia), all'insegna di uno spostamento in cui si avverte smaccatamente il passaggio da un set all'altro, il problema è semmai quello di concretizzare un'idea di cinema che riscatti di volta in volta lo spazio del racconto, funzionando anche come molla di un tempo astratto. A differenza di quello che accade nell'interessante Perduto amore di Battiato infatti (una vera e propria dichiarazione d'amore per una regione letteralmente ri/impaginata dalla fantasia grottesca e accesa dell'autore), la Sicilia della Ciccone è sempre vista con uno sguardo come sonnolento, appiattito su refrain visivi basati sull'accumulo di dettagli che si esauriscono all'interno di una sfera esclusivamente letteraria (il cambiamento delle abitudini di Marja, il suo disadattamento nei confronti della vita in Sicilia), così come rimane di fatto nullo il ricorso ad una dimensione fittizia (Marja che si immagina di essere una spia, cominciando così a vedere le persone più normali come ipotetici nemici). Da questo punto di vista il cinema della regista arranca nella definizione degli spazi intermedi (la fisicità della protagonista non crea mai vera frizione con quella del marito Fortunato e con quella degli altri suoi familiari), in un'atmosfera di mediocrità stilistica che banalizza movimenti e tensioni familiari. In un certo senso alcuni interni (e i corpi che li abitano) sembrano ricalcare il terribile Giordana de I cento passi, con un'esibizione sempre troppo insistita di colori d'epoca, tanto che il dramma che scoppia nella seconda parte (il ricovero di Marja in una sorta di manicomio) resta fermo, inquadrato su coordinate come asettiche e stagnanti, incapaci di trasformarsi veramente in cinema del dolore e della vita.

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Regia: Anne Riita Ciccone


Soggetto: Anne Riita Ciccone


Sceneggiatura: Anne Riitta Ciccone


Fotografia: Franco Di Giacomo


Montaggio: Letizia Caudullo


Musiche: Giovanni Renzo


Scenografia: Marco Dentici


Interpreti: Laura Malmivaara (Marja), Vincenzo Peluso (Fortunato), Erika Lepisto (Alice da bambina), Annika Lepisto (Sonia da bambina), Veronica Visentin (Alice da ragazza), Sara Filazzola Hartmann (Sonia da ragazza), Tiziana Lodato (Zia Sandra), Nino Frassica (uomo del bar), David Coco (Alessio), Maurizio Marchetti (nonno siciliano), Lucia Sardo (nonna siciliana)


Produzione: Francesco Torelli Productions


Distribuzione: La Trincea


Durata: 102'


Origine: Italia, 2002


 


 

 


 

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