L'amore è radioattivo? Grand Central, foto e due clip

L'amore è radioattivo? Léa Seydoux e Tahar Rahim in Grand Central, foto e due clip

Tahar Rahim e Léa Seydoux protagonisti del film di Rebecca Zlotowski, presentato a Cannes 66. Non un manifesto pro o contro il nucleare, ma sulla potenza sovversiva dell'amore che insegue alcune figure eroiche del cinema del passato, sospese tra una dura realtà sociale e il romanticismo

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L'amore è radioattivo? Léa Seydoux e Tahar Rahim in Grand Central, foto e due clip 

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Uscirà in Francia il 28 agosto 2013 distribuito da Ad Vitam Grand Central (la recensione) presentato a Cannes 66 nella sezione Un certain regard, interpretato da Tahar Rahim e Léa Seydoux, diretto da Rebecca Zlotowski, regista parigina cresciuta alla scuola La Fémis, dove ha avuto come tutore il regista americano Lodge Kerrigan (Clean Shaven, Keane, Rebecca H) e ha incontrato cineasti quali Philippe Grandrieux e Jean-Claude Brisseau.
 

Léa Seydoux e Tahar Rahim - Grand Central a Cannes 66Grand Central (info e prime foto) racconta di Gary (Rahim) trentenne ambizioso, con alle spalle una lunga serie di lavori saltuari e un passato difficile. Insieme a  Tcherno (Johan Libéreau) e Isaac (Nahuel Pérez Biscayart) viene assunto come operaio da una società che si occupa di energia nucleare, sotto la guida di Gilles (Olivier Gourmet) e Toni (Denis Ménochet). L'incontro con la moglie di quest'ultimo, Karole (Seydoux, a Cannes anche con il vincitore della Palma d'Oro La vie d’Adèle) sarà fatale. Intanto, alle radiazioni pericolose dell'attrazione si sommano quelle giornaliere del lavoro…

Più che realizzare un manifesto militante pro o contro il nucleare, Grand Central intende mostrare la potenza sovversiva dell'amore, che penetra nella microsocietà della Centrale."L'amore sorprende il mio eroe come una malattia rara e imprevista".

Il film è stato scritto insieme a Gaëlle Macé come il precedente, l'esordio Belle Épine (2010) sempre con la Seydoux nei panni di un'adolescente. Proprio dalla Macé è arrivato il primo spunto, racconta la regista: la lettura del  primo romanzo di Elisabeth Filhol, La Centrale (uscito anche da noi per Fazi) cronaca della vita quotidiana di un operaio del nucleare. "Un libro che descrive con grande rigore documentaristico un mondo che nessuno aveva fino ad ora aveva parlato, quella dei subappalti del nucleare, gettando una luce che insieme illumina e abbaglia su questa realtà. Il film non è un adattamento, anche se abbiamo ringraziato l'autrice per l'ispirazione. Abbiamo incontrato un operaio, Claude Dubout, che aveva scritto un'affascinante autobiografia: è diventato il nostro consulente."

Tahar Rahim in Grand Central di Rebecca ZlotowskiLe zone dove si lavora con il nucleare per la regista sono paesaggi di "fiction assoluta, un territorio inesplorato dove potrebbero fiorire come passioni indicibili, a contatto con la vita e con la morte. L'analogia è questa: come il sentimento dell'amore, ci troviamo di fronte a una contaminazione lenta ma certa, incolore e inodore, difficilmente controllabile. Proletari con armi leggere vengono arruolati per tenere a bada un drago senza volto".

Le location sono state importanti per definire questo sentimento: il film è stato girato in un impianto mai finito a Zwentendorf, nella periferia di Vienna, una sorta di cattedrale nel deserto "sorvegliato da una guardia che non parla una parola di inglese e vive come un eremita", circondata da una natura rigogliosa quasi "allucinatoria" utilizzata per mostrare il fiorire della passione.
 
La scelta dei protagonisti è stata immediata. Léa Seydoux e Tahar Rahim sono stati immaginati come protagonisti ancora prima della stesura del copione. "Ho sempre pensato che gli attori, come ha detto il critico Alain Bergala, siano 'corpi conduttori' che creano echi, percorsi sotterranei tra più film. Tahar si è imposto nel cinema in un universo carcerario [in Un profeta] dimostrando poi una grande sensualità in Love and Bruises di Lou Ye, che mi ha impressionato. Mi piaceva l'idea di giocare con i suoi personaggi e usarli per costruire Gary."

Olivier Gourmet è "inseparabile dal ricordo dei grandi film dei fratelli Dardenne" (e ideale per costruire un'altra idea di virilità, basata sull'incontro-scontro tra il proletario e il funzionario interpretato di recente ne Il Ministro di Scholler), Nahuel Perez Biscayart, di origine argentina, rappresenta "l'orizzonte di una lingua straniera, un paese lontano", mentre Johan Libéreau interpreta in qualche modo un'estensione del suo ruolo in Belle Épine. La Seydoux per la regista "non è mai stata così esplicitamente erotica e voluttuosa: ricorda la Isabelle Adjani di L'estate assassina [1963, Jean Becker] o la Marilyn Monroe di La confessione della signora Doyle [1952, Fritz Lang]".

The Lusty Man, Nicholas Ray, 1952Ménochet, padre (alle strette) di Léa in Bastardi senza gloria, qui è suo marito. "Quando lo guardo penso a Robert Mitchum, ed è un'osservazione che ha fatto anche Quentin Tarantino": nel film, ammette la Zlotowski, c'è "la tentazione del western", l'idea di un uomo solitario che arriva da lontano, entra in un gruppo di professionisti, ne sconvolge gli equilibri, si presta a uno scontro. 

Tra le sue ispirazioni la regista, pur definendosi lontana dal genere, cita grandi film americani "intrisi di eroismo, pericolo e romanticismo sullo sfondo di una dura realtà sociale" quali Il temerario (The Lusty Man, 1952) di Nicholas Ray, Fulminati (1941) di Raoul Walsh e I Temerari (1969) di John Frankenheimer, intrisi di eroismo, pericolo e romanticismo. Nel film ci sono tanti piccoli omaggi al cinema del passato: il Gary Manda di Rahim  richiama Georges "Jo" Manda di Casco d'oro (1952, Jacques Becker) mentre il Toni di Ménochet deve il suo nome al melò del 1934, Toni, di Jean Renoir.

Quando parla di eroi, la regista insegue un concetto di realismo che non è necessariamente naturalismo.
"Il lavoro dei personaggi non deve apparire come un semplice sfondo, ma un aspetto potente, dal momento che è così importante nella nostra vita. Un impianto nucleare non è solo una fabbrica, una cava di pietra, dove il lavoro è duro, faticoso e sottopagato, dai ritmi infernali, ma anche un luogo peculiare, in cui si manifestano rapporti di solidarietà e virilità che volevo esplorare." Per la regista, la dimensione politica di un film deve restare nell'audacia con cui espone la sua tesi: "andare a lavorare in una centrale nucleare, così come lanciarsi in una storia d'amore, riguarda il lottare con se stessi. Tra il virus dell'amore e le radiazioni c'è un'analogia perfetta".

Qui di seguito, due clip da Grand Central:
 

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