L’amore rubato, di Irish Braschi

In trentadue sale italiane il 29 e 30 novembre come evento speciale per la Giornata Internazionale contro la Violenza sulle Donne, il film del regista livornese è un prodotto di denuncia

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Per sempre ricorderemo di aver amato chi dell’amore non capiva niente”. La voce fuoricampo di Marina (Stefania Rocca), nel finale de L’Amore Rubato, enuclea e restituisce con efficacia il senso più profondo ed il fulcro drammatico del lungometraggio diretto dal quarantunenne regista livornese Irish Braschi (I Believe in Miracles, 2008, un viaggio documentario sul tema del “miracolo” animato da un eterogeneo gruppo di persone che hanno condiviso per alcune settimane il set del film Miracolo a Sant’Anna di Spike Lee; E poi venne il silenzio, 2010, documentario dedicato alla strage nazi-fascista di Sant’Anna di Stazzema; Lettera da Madras, 2011; Io sono nata viaggiando, 2013, docu-fiction incentrata sulla figura della scrittrice Dacia Maraini). La potenza e l’intensità di un sentimento declinato al femminile e che viene calpestato, umiliato, ingannato, “sfruttato”, manomesso, rubato (appunto). Ma si tratta di un amore talvolta accompagnato da altri demoni che si celano insidiosi dietro maschere di perbenismo o strutture mentali ataviche o, al contrario, non temono di esibire i propri muscoli e lineamenti mostruosi: il nichilismo e la patologia voyeuristica e ricattatoria della logica del branco non meno che il preteso e presunto diritto di proprietà del maschio padrone sulla donna schiava, zerbino, pupazzo, manichino o strumento per soddisfare le proprie pulsioni sessuali quando non per realizzare ed accrescere il proprio status sociale e il proprio “sprofondo” interiore.

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locandinaLiberamente ispirato all’omonimo romanzo della Maraini (Mondadori, 2013) – a riprova della fruttuosa collaborazione instauratasi tra il regista e la nota autrice – L’Amore Rubato incastra le drammatiche vicende di cinque donne, diverse tra loro per età, temperamento ed estrazione sociale, ma accomunate dalla scioccante esperienza di un amore violento, morboso, traumatico. Marina è una giovane mamma assuefatta ad esperire e concepire l’amore come sottomissione alle regole e alle bizze bipolari di un marito rigido, aggressivo e maniaco del controllo; Angela (Elena Sofia Ricci) è un’insegnante cinquantenne single da tempo che intreccia una relazione con un uomo che si rivelerà essere possessivo ed instabile; Francesca (Elisabetta Mirra) è un’adolescente curiosa ed anticonformista, alle prese con le prime cotte del liceo, che sconterà la sua legittima “febbre di esperienze” finendo nelle mani di un branco spietato di compagni di classe. Sono quasi coetanee Alessandra (Chiara Mastalli) e Anna (Gabriella Pession): la prima vive in un palazzone di periferia con il fratellino e la nonna e lavora in una piscina come addetta alle pulizie al servizio di un anonimo sessantenne che non tarderà ad assumere le sembianze dell’orco; la seconda insegue il sogno di diventare un’attrice di teatro, ma presto precipiterà in un vortice di “tossicodipendenza amorosa” fatta di scatti d’ira e pestaggi da parte del compagno, la rockstar “Il Moro”, fino al tragico epilogo.

lamore-rubato-5La qualità narrativa della messinscena e la pregnanza drammaturgica dello script coincidono pienamente e, al tempo stesso, restano confinate in toto nella funzione di denuncia sociale della pellicola e nella natura di operazione pensata per sensibilizzare l’opinione pubblica su un tema quanto mai urgente e spinoso nella sua proterva, sconcertante e – ciò che più colpisce – “antica” attualità. L’Amore Rubato è un film non privo di interessanti soluzioni stilistiche (ci riferiamo alla scelta del regista di raccontare le cinque storie con una diversa modalità di ripresa e con uno specifico riferimento cromatico e fotografico: macchina a spalla, predilezione per l’immagine sgranata e colori spenti e de-saturati per la storia di Alessandra; maggior ricorso ai primi piani e tonalità rosa per quella di Francesca; sfruttamento “emotivo” dell’immagine a rallenty e tinte in prevalenza rosse per le vicende di Anna; lunghi piani sequenza con la steadicam e look dal blu all’azzurro per la storia di Marina; focali lunghe e cromia tra il sabbia e il ruggine per quella di Angela) ed interpretato con sufficiente pathos dalle cinque protagoniste (convince soprattutto un’intensa e coinvolgente Chiara Mastalli). Tuttavia, la pellicola scorre davanti agli occhi dello spettatore, per buona parte della durata, piuttosto farraginosa, in questo certamente non agevolata dalla facies episodica del plot e dalla precisa scelta del regista di relegare sottotraccia le mostruosità nude e crude della violenza fisica, tout court. In uno spirito, va detto, molto vicino al racconto quotidiano e prosaico di una fiction televisiva. Sono gli effetti psicologici della brutalità, già consumata e inferta alla carne, che emergono, lentamente ma inesorabilmente, nella parte conclusiva del film, attraverso la decantazione delle sfumature di una sofferenza ormai incontenibile e la cristallizzazione del male patito sul piano di una riflessione esistenziale universalizzata. Quello di Braschi è un film che trova la sua sostanza e la sua dignità squisitamente cinematografica nell’importante obiettivo che si propone: scuotere le coscienze e destinare i proventi alla lotta contro la violenza di genere sostenendo WeWorld, organizzazione no profit che tutela i diritti dei bambini e delle donne in Italia e nel mondo.
Il soggetto è firmato da Giancarlo De Cataldo ed Irish Braschi, mentre la sceneggiatura è dello stesso Braschi e di Giorgia Cecere. Prodotto dalla Anthos Produzioni di Maite Bulgari in collaborazione con Rai Cinema e distribuito da Microcinema-

 

Regia: Irish Braschi

Interpreti: Elena Sofia Ricci, Stefania Rocca, Gabriella Pession, Chiara Mastalli, Elisabetta Mirra, Francesco Montanari, Alessandro Preziosi, Emilio Solfrizzi, Antonello Fassari, Massimo Poggio, Antonio Catania, Daniela Poggi, Cecilia Dazzi, Luisa De Santis, Emanuel Caserio

Distribuzione: Microcinema

Durata: 60’

Origine: Italia, 2016

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