Land of Mine. Sotto la sabbia, di Martin Zandvliet

Racconto ad alta tensione di una delle pagine più cruente dell’Europa post-bellica, aggiunge un riuscito tassello alla riflessione del cinema sul nemico ingiusto e sulla sua punizione a guerra finita

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Nel desolato paesaggio della Danimarca liberata, gli ex occupanti tedeschi sono solo dei prigionieri ragazzini costretti a sminare il paese sotto lo sguardo del vincitore. Land of Mine, racconto ad alta tensione di una delle pagine più cruente dell’Europa post-bellica, aggiunge – sotto la direzione di Martin Zandvliet – un riuscito tassello alla riflessione del cinema sul nemico “ingiusto” e sulla sua punizione/umiliazione a guerra finita. Lo fa “pedinando” – a metà tra realismo e film d’azione –  la lotta per la sopravvivenza di quattordici tedeschi adolescenti durante la missione di vendetta/sminamento sorvegliata dal sergente Leopold (Roland Møller) in una sterminata no man’s land della costa occidentale.

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Il “sangue dei vinti” in coscienza danese si avvale qui di una poderosa insistenza di primi piani che ravvicinano il terrore sulle facce dei ragazzi (a denunciarne/condividerne al massimo l’insostenibile posizione) come all’ambiguità del profilo del sergente in apertura. E che si alternano senza tregua a campi lunghissimi, dove non c’è spazio per la figura del vinto e raramente è compreso lo stesso vincitore a dichiarare il più generale divorzio tra la natura (ferita, sterminata e quasi desertica di una qualunque zona di guerra) e una sia pur residuale presenza di umanità. Quest’ultima, se c’è, si palesa nelle isolate sequenze di una bambina che saltella davanti al casolare o gioca con la sua bambola nel nulla, tra il mare aperto e il filo spinato. Perché il lager adesso rinchiude i figli dei suoi inventori in un contrappasso feroce che determina il ribaltamento delle parti e delle morali: dov’è finito l’ “ingiusto nemico” di kantiana memoria se la vittoria sul nazismo ha dato via libera alle ritorsioni delle ex vittime contro i propri persecutori? La risposta è nella macchina da presa che ora schiaccia i corpi dei ragazzi mentre disseppelliscono, stesi a terra, gli ordigni, ora accompagna l’incedere in fila dei prigionieri in una versione invertita delle “marce della morte”. Perché questa è soprattutto una storia di vendetta, dove un uomo di mezza età scatena nell’incipit la sua furia a caso verso un soldato della Germania distrutta (più volte evocata dai prigionieri) o umilia un ragazzino letteralmente come un cane in una scena che ricorda, per l’età troppo vecchia o troppo giovane del punito e per la solitudine sterminata del paesaggio, la ritorsione di Cheyenn verso l’anziano ex gerarca in The Must Be the Place.

land of mine martin zandvlietPer niente kubrickiano tuttavia al sergente Leopold resta ancora un’altra possibilità che, contrapponendolo ai colleghi, evidenzia l’inevitabile generarsi di irriducibili conflitti interni alla società dopo la fine delle grandi guerre “esterne”. Una contraddizione/decadenza intrinseca alla comunità post-bellica che per altre vie era stata raccontata anche dal conterraneo Lars Von Trier in Europa, ma alla quale Martin Zandviliet offre un ampio e classico respiro narrativo in cui i colpi di scena hanno il rumore assordante delle mine che saltano sui corpi, la riflessione è affidata all’immagine del vento che batte imperturbato sul paesaggio e l’ambivalenza della psiche può trovare, ancora, dei punti di svolta per rivoltare un finale.

Titolo originale: Under Sandet

Regia: Martin Zandvliet

Interpreti: Roland Møller, Mikkel Boe Følsgaard, Laura Bro, Louis Hofmann, Joel Basman

Distribuzione: Notorius Pictures

Durata: 101′

Origine: Danimarca/Germania 2015

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