Leo McCarey: camminare tra le nuvole

In occasione della corposa retrospettiva del Festival di Locarno curata da Roberto Turigliatto, ripercorriamo la carriera di uno dei cineasti statunitensi più significativi e mutanti

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“Leo McCarey ha capito le persone meglio di qualunque altro regista di Hollywood” (Jean Renoir dall’intervista di Andrew Sarris in The American Cinema, New York: E.P. Dutton and Co., 1968, p. 100)

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Ignorato inspiegabilmente dai Cahiers, Leo McCarey forse è stato uno dei cineasti che ha attraversato trasversalmente la storia del cinema hollywoodiano. I mutamenti evidenti del suo cinema andavano parallelamente a quelli della cinematografia statunitense. E forse la corposa retrospettiva che gli dedica quest’anno il 71° Festival di Locarno, curata da Roberto Turigliatto, sarà l’occasione per rivedere e riscoprire il suo cinema. In una carriera grandiosa e ondivaga, considerata fulminante negli anni ’30 e fino a uno dei suo film di maggiore successo, La mia via (1944) con cui è stato il primo regista a vincere l’Oscar per il miglior film, la regia (era il secondo dopo L’orribile verità del 1937) e la sceneggiatura. Ma che secondo alcuni aveva iniziato a mostrare i segni di un’involuzione rispetto alla sua produzione precedente. Fino ad essere considerato uno dei cineasti più vicini al maccartismo soprattutto dopo film come L’amore più grande (1952) sul conflitto tra una famiglia tradizionale e il figlio diventato una spia comunista o il suo ultimo lungometraggio, Storia cinese (1962) – ma il titolo originale, Satan Never Sleeps, era ancora più emblematico – che offriva l’immagine repressiva della Cina meridionale del 1949 occupata dalle truppe di Mao Dzedong.

In realtà il cinema di McCarey è l’esempio di uno dei più flessibili, apparentemente trasparenti, ma che sembra mutare ogni successiva visione. Due cineasti sono stati fondamentali per la sua formazione. Uno è Tod Browning, l’altro Hal Roach. Dal primo ha preso quell’invisibile ma consistente deformazione della realtà dove si creano delle zone horror, evidenti proprio in L’amore più grande e Storia cinese, come se i corpi diventassero improvvisamente dei mostri dentro però una struttura mélo come in un film di John M. Stahl. Dal secondo invece un istintivo senso del ritmo. Non è un caso che ha intuito le potenzialità del duo Laurel & Hardy e con Roach ha creato una delle coppie comiche più celebri. Basta vedere innanzitutto la dinamicità impazzita con cui creava le gags come risultato perfetto di un teorema geometrico: il tentativo di Stanlio e Ollio in fuga che cercano di raggiungere la scala a pioli di un palazzo in Liberty o l’ambiguità tra un cavallo di razza e un quadro di Wrong Again, entrambi del 1929.

McCarey tirava fuori il meglio dai comici e ne riusciva a sfruttare tutte le potenzialità. Non è un caso che ha diretto il miglior film dei fratelli Marx, la parodia antimilitarista mescolata con echi di Lubitsch in La guerra lampo dei Fratelli Marx (1933), un esempio di purezza della comicità nel suo punto più alto che in Italia uscì solo dopo la guerra perché vietata dal fascismo. Ma ha anche diretto Eddie Cantor in un’altra variazione del comico come lo scambio d’identità (uno studente scambiato per un torero in Il re dell’arena (1932), le traiettorie sentimentali di Mae West in Belle of the Ninities (1934) rifacendosi anche a quelle di Gloria Swanson in Indiscreet (1931) e il trasformismo di uno degli ultimi film di Harold Lloyd – sempre con i suoi inconfondibile occhiali e la faccia semplice da uomo della porta accanto – da semplice lattaio e spavaldo

pugile in La via lattea (1936). Ma l’anno prima aveva già raggiunto, subito dopo il film con i fratelli Marx, uno dei vertici della sua filmografia con Il maggiordomo (1935) con Charles Laughton in versione comica che, nella sua apparente impassibilità, sembrava quasi una provvisoria reincarnazione di Buster Keaton: volto impassibile, quasi impermeabile agli eventi che ruotavano attorno a lui (un maggiordomo perso a poker dal suo padrone e assunto da una facoltosa famiglia statunitense) in una malinconica versione di un’Europa affascinante e decadente e l’America rozza dei nuovi ricchi che compongono una commedia sociale tra le più corrosive. E dove comunque c’erano i segni del sogno americano ancora prima del cinema di Capra (È arrivata la felicità è dell’anno successivo) con un finale al ristorante da antologia, sospeso tra slapstick e sophisticated comedy) che invece influenzerà e scolorirà uno dei suoi titoli meno interessanti, Il buon samaritano (1948), con Gary Cooper che sembrava proprio dentro un film del regista di Mr. Smith va a Washington, ma che comunque smascherava la natura umana degli uomini (in questo caso, ricorrente, è ancora il tema dell’egoismo), attraverso la figura di un uomo sempre disposto ad aiutare il prossimo ma vedrà che invece le persone spariscono quando lui ne ha bisogno.

L’apparente ottimismo del cinema di McCarey scompare davanti a quello che è il suo capolavoro, il film che lui stesso amava di più, Cupo tramonto (1937), dalla pièce teatrale di Helen e Noah Leary, ancora oggi uno dei punti più alti del cinema statunitense di sempre. Attraverso la parabola della coppia anziana che ha dovuto lasciare la propria casa per difficoltà finanziarie e sono costretti a dividersi per essere ospitati dai figli, c’è un ritratto struggente di un amore assoluto (la scena della telefonata è ancora oggi travolgente) che cerca di ritagliarsi ad ogni costo l’ultimo momento di felicità, prima della separazione definitiva dove, come in Browning, ci sono tutte le ombre della morte. Ma anche un’ultimo incontro stravolgente, con echi del Murnau di Aurora (1927), una ronde dove, come spesso accade nel suo cinema, i due protagonisti cercano di volare sopra gli altri e camminare tra le nuvole sullo spettro incombente della Depressione. Forse ha anche influenzato uno dei vertici della filmografia di Ozu, Viaggio a Tokyo (1952) ma all’epoca dell’uscita è stato ignorato dal pubblico tanto è vero che ha segnato la rottura tra il regista e la Paramount. E curiosamente, proprio nello stesso anno, per la Columbia, ha firmato uno dei vertici assoluti della commedia matrimoniale, L’orribile verità (1937), primo dei tre film con Cary Grant; gli altri due sono Fuggiamo insieme del 1942 e Un amore splendido del 1957, senza considerare Le mie due mogli, sempre con la celebre star in coppia con Irene Dunne che McCarey doveva dirigere ma poi, a causa di un incidente d’auto, ha dovuto cedere la regia a Garson Kanin. Dentro c’era una cattiveria e un senso del ritmo combinati alla perfezione, forse uno dei film che segnano e definiscono meglio la screwball comedy e che Stanley Cavell l’ha inquadrata in un sottogenere chiamato ‘commedia del rimatrimonio’. A differenza di Cupo tramonto, L’orribile verità ha avuto un grandissimo successo al box-office tanto è vero che, prima proprio di Frank Capra, era uno dei rari registi della Columbia ad avere una certa indipendenza.

Sembravano quei film dalle sceneggiature od orologeria. E in realtà lo erano. Proprio come quella di Delmer Daves nel successivo Un grande amore (1939), ancora l’amore sublime di Cupo tramonto dove la commedia scivola nel mélo e in cui l’Empire State Building diventa il desiderio, il sogno puro e impossibile come nel remake che lui stesso ha diretto, Un amore splendido, dove il colore lo ha reso fiammeggiante, fuori tempo, infuocato. Si tratta del film migliore del tardo McCarey, anche se il suo cinema degli anni ’50, oggi, andrebbe completamente e nuovamente inquadrato criticamente. Ma il segreto del suo cinema è anche la sua capacità di improvvisazione, una mobilità quasi rosselliniana. Che ha certamente messo a punto lavorando con Laurel & Hardy. Ma aveva segnato anche il cinema di altri grandi cineasti come Howard Hawks, Gregory La Cava e George Stevens. Molte volte sul set, per preparare una scena, si sedeva al piano e iniziava a suonare. E poi non lasciava mai leggere agli attori la sceneggiatura per intero. Forse era questa la cosa che straniva maggiormente Cary Grant. Che spesso entrava in conflitto con il regista. I due, tra l’altro, si somigliavano. E McCarey aveva detto che l’attore aveva basato il personaggio di L’orribile verità rubando delle parti di lui. “Delle 16 ore che passa da sveglio – ha detto McCarey di Grant – non credo che passino 20 minuti senza che si lamenti: non ho mai incontrato un uomo più inquieto”).

Poi il suo cinema era diventato apparentemente più inquadrabile. La vicenda del prete che risolleva le sorti di una parrocchia newyorkese in La mia via e il sequel successivo di Le campane di Santa Maria (sempre con Bing Crosby nei panni di Padre O’Malley e qui arricchito da una strepitosa Ingrid Bergman nel ruolo della Madre Superiora) mostrano comunque un mestiere notevole, una propensione per la scena madre classica. Con un uso del colore quasi espressionista che segna forse il suo film più politico, ma anche più proiettato verso l’immediato futuro, con la protesta dei cittadini di Putnam contro l’installazione di una base missilistica in Missili in giardino (1958), in un cinema che negli anni ’50 cercava di stare al passo coi tempi. Forse non ci riusciva ma era questa parte del suo fascino. E anche l’accoppiata Paul Newman-Joanne Woodward sembrava ancora passeggiare in cielo. “Non so quale sia la mia formula. So solo che mi piacciono i miei personaggi quando camminano tra le nuvole. Mi piace la dimensione fiabesca perché permette agli altri di fotografare la bruttezza del mondo. Però, al tempo stesso, non voglio neanche angosciare le persone”.

 

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