L’eternità digitale. Jerzy Skolimowski a Bari

Il maestro del cinema polacco ha inaugurato con l’anteprima del suo 11 minutes la V edizione della rassegna Registi Fuori dagli Sche(r)mi, oramai imperdibile crocevia di pubblico e dinamica critica

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È Jerzy Skolimowski, tra i maestri del cinema polacco, ad aver inaugurato con l’anteprima del suo 11 minutes (in concorso a Venezia72) la V edizione della rassegna “Registi Fuori dagli Sche(r)mi”, oramai imperdibile crocevia di pubblico, dinamica critica e miglior cinema d’autore, targata Apulia Film Commission.
Ad accoglierlo nella sala gremita del Cineporto di Bari, un parterre d’ospiti d’eccezione (Margherita Furdal e Roberto Turigliatto coautori di una monografia dedicata e Lorenzo Esposito, tra le firme di “Fuori orario cose (mai) viste”) che il direttore artistico, Luigi Abiusi, ha voluto definire vero e proprio “abbraccio d’amicizia” per il cineasta.

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Skolimowski, oggi ironico ultrasettantenne, dopo un decennale periodo di pausa, era tornato alla regia nel 2008 con Quattro notti con Anna, ritorno che 11 minutes suggella, dopo Essential killing del 2010, a comporre una poetica di annichilimento dell’istanza visiva.
11 minutes prosegue la speculazione sulla percezione del lasso di tempo esposto: come 4 notti nell’ombra dell’incoscienza altrui, al limen tra la vita e la morte, possono rappresentare l’intera (in)esistenza di un uomo, così la reiterata scomposizione plurifocale di soli 11 minuti, possono restituire l’esplosione dell’accidentalità collettiva. Eppure l’ostentazione della durata dilatata, così come la distorsione dei passaggi sonori, non sono che una cornice, quasi un esercizio di stile, funzionali alla stratificazione dei paradigmi visivi e metalinguistici gettati sul mondo, ivi contenuti.

Per espressa dichiarazione del regista gli 11 minuti, da cui il titolo, sono l’unità spaziotemporale che meglio rende lo scarto tra lo sfiorarsi per caso di storie distinte e la loro collisione in un unico, imprevedibile, tragico precipitare di eventi. Lì dove la tragicità non è nell’inarrestabile azione a catena, bensì nel costituire indifferenziato flusso di registrazione, visualizzazione dispersa dell’accadere, alle estreme conseguenze il riquadro di un maxischermo frazionabile all’infinito, che pullula di immagini fisse ininterrotte: sorveglianza non (sor)vegliabile nell’eccezionalità del caso singolo.
Va da sé, l’ammissione d’autore di quanto pesi nell’economia della trama lo spettro dell’archetipo – media event, l’11 Settembre 2001. Quella ripetuta scena inserto, del roboante aereo a bassissima quota, che scandisce il volgere all’epilogo fatale. La pulsione scopica, premonitrice di morte, involve da umana e passionale in istanza inanimata, tecnologica, che riduce l’uomo da agente a oggetto.

L’occhio umano, impenetrabile finestra d’animo in subbuglio – che già in 4 notti con Anna veniva simbolicamente sfregiato dall’innalzamento di un muro divisorio tra sé e il desiderio – è qui letteralmente tumefatto per gelosia, e il dettaglio dell’occhio di donna, casus belli, primissima inquadratura dell’incipit, è già fagocitato dal videofonino, la cui prospettiva in soggettiva, mossa e abbandonata al caso, è tutto l’antefatto di un funesto odi et amo, miccia del prologo corale dominato da video chat, web cam, riprese a circuito chiuso. Sino allo smarrimento, all’abisso vizioso, per cui la videocamera di vigilanza riprende un ponte sul fiume, ove un pittore che ritrae il panorama è il fuori campo inconsapevole di un set cinematografico dislocato in loco. Sino al paradosso, per cui una goccia di inchiostro, investita dall’urto sonoro del tuffo scenico nel fiume, sporca l’orizzonte ritratto dal pittore, nel medesimo punto in cui anche l’immagine del luogo restituita in video, appare macchiata da un punto indelebile. Un “pixel morto sullo schermo” è la beffa che si confonde, nel cortocircuito di visualizzazione in visualizzazione, con un oggetto non identificato avvistato nel cielo.

È così che l’alterazione della successione degli eventi non ha più ragion d’essere, nella sovversione totale del punto di vista onnisciente, quando la nube dell’esplosione in piazza, epicentro di tutte le storie, si trasfigura in pixel nero, lacuna di una disorganica e insensata memoria visiva. Eppure l’unica che possa conservarsi integrale.
Nella sua personale visione pessimistica Skolimowski lascia che l’eternità digitale quasi derida i drammi di cui è muta custode, se nel mezzo di un rocambolesco soccorso medico, l’unico passo indietro di salvezza, è l’effetto speciale di una goccia d’acqua che, anziché scivolare verso terra, risale il muro.
Ed è in definitiva con il medesimo disincanto, che il cineasta si congeda, rileggendo i versi di un suo componimento, riaffiorati fortuitamente durante il dibattito, sull’uomo di carne e istinto, che con l’impeto di voler riparare il passato, al presente può solo accomodarsi la cravatta.

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