"Liberi", di Gianluca Maria Tavarelli

"Cinema paterno/filiale" e contro un cinema dei padri, che non si vergogna di mostrare l'ultimo ballo tra il padre e la madre, di far urlare "I Will Survive"e di staccarsi con decisione dalle zone paludate del cinema italiano più sicuro. Un cinema che si ama con lo stomaco più che con gli occhi, fragile e libero

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Ancora un "cinema della fuga" quello di Tavarelli. Ancora un cinema orientato verso la continua tensione di rendere filmabile la provvisorietà dei sentimenti. Se Un amore tracciava la storia d'amore dei due protagonisti (Fabrizio Gifuni e Lorenza Indovina) mostrando una lacerante verità da mettere direttamente in gioco, se Portami via e Qui non è il Paradiso è la necessità di inseguire un'utopica quanto provvisoria felicità, Liberi mette a nudo direttamente le emozioni dei suoi personaggi con una fisicità coinvolgente per quanto è opprimente e calda. Il personaggio di Vince (Elio Germano) è fin dall'inizio una figura in fuga dentro la sua automobile diretto per chissà quale destinazione. I luoghi in realtà non si allontanano mai né da lui né dalla sua famiglia, il padre Cenzo (Luigi Maria Burruano) e la madre Anita (Rosa Pianeta). Infatti sia lui sia la madre si spostano da un paesino dell'Abruzzo, Bussi, a Pescara, dopo che Cenzo è stato licenziato da una fabbrica chimica dove aveva lavorato per trent'anni come operaio di primo livello. Una volta trasferitosi a Pescara, Vince trova lavoro in un ristorante e qui incontra Genny (Nicole Grimaudo) che lavora lì come cameriera e assieme alla quale inizierà insieme un percorso di fuga. Fuga dalle proprie paure (Genny che non riesce a prendere l'autobus e il treno per spostarsi), fuga da una stabilizzazione che appare come permanente (il timore di Vince di non riuscire mai a dare una svolta alla propria vita). C'è una semplicità e una forza quasi alla Rohmer in Tavarelli nel dare forma all'attrazione che reciprocamente unisce Genny  e Vince. L'arrivo di Vince a Pescara, il suo giro sulla spiaggia prima di vedere la madre sembra avere lo stesso pulsante disorientamento di Pauline in Pauline à la plage. Tavarelli, come Calopresti di La felicità non costa niente, non ha nessun timore di sfiorare il ridicolo, di scottarsi. È troppo complice dei suoi personaggi per sfruttarli anatomicamente come Ciprì e Maresco, è troppo attento a cogliere l'improvvisazione dei loro sguardi – il modo in cui Vince guarda Genny, la sorpresa di Vince quando vede che il padre arriva improvvisamente a casa sua a Pescara – le loro tensioni nascoste, il loro vergognarsi delle persone che amano, le loro gelosie. C'è un momento in cui Genny dice a Vince che secondo lei il ragazzo si è pentito di averla aiutata a superare le proprie paure perché lui pensa alle paure degli altri ma non alle sue. La voce fuori-campo del protagonista mette infatti in gioco le proprie insicurezze, la necessità e l'impossibilità di staccarsi dai propri affetti. C'è un'attrazione del cuore che spesso prevale sulla sua volontà. L'utilizzo della voce fuori-campo non è poi un mezzo, come lo utilizza Virzì, di parlare di se stesso, ma al contrario un'insopprimibile esigenza di parlare e di far parlare gli altri personaggi. Così le traiettorie disordinate di Vince, gli spostamenti nell'ora assolata ora notturna città abruzzese diventano il modo per aprire i personaggi, per mettere a nudo la loro coinvolgente disperazione (i brevi momenti dei licenziamenti e degli scioperi hanno una verità che non possiede Il posto dell'anima di Milani in tutta la sua durata) o per inseguire i loro istinti da dove sembrano fuggire provvisoriamente dalla sceneggiatura scritta. Nella scena in cui Cenzo si arrampica sull'impalcatura di un palazzo in costruzione per poter vedere Anita (che si è legataa un altro uomo) e poi, una volta sceso, si sfoga col figlio, prefigurandogli un futuro uguale al suo, rappresenta il cuore di un "cinema paterno/filiale" e contro un cinema dei padri, che non si vergogna di mostrare l'ultimo ballo tra il padre e la madre, di far urlare "I Will Survive"e di staccarsi con decisione dalle zone paludate del cinema italiano più sicuro. Un cinema che si ama con lo stomaco più che con gli occhi, fragile e libero.      

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Regia: Gianluca Maria Tavarelli
Sceneggiatura: Angelo Carbone, Leonardo Fasoli, Gianluca Maria Tavarelli
Fotografia: Roberto Forza
Montaggio: Marco Spoletini
Suono: Bruno Pupparo
Scenografia: Francesca Bocca
Costumi: Francesca Lasciello
Interpreti: Elio Germano (Vince), Nicole Grimaudo (Genny), Luigi Maria Burruano (Cenzo), Anita Zagaria (Paola), Myriam Catania (Elena), Rosa Pianeta (Anita)
Produzione: Domenico Procacci per Fandango
Distribuzione: Fandango
Durata: 113'
Origine: Italia, 2003

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