"L'importanza di chiamarsi Ernest", di Oliver Parker

Wilde vale come mille Shakespeare quanto a rischi di compiacimento calligrafico e cinematografia da Esposizione Universale. I suoi testi trasudano quell'arguzia inglese condita di frivola mondanità e soffice estetismo per cui tutti, produttori in cima, vanno pazzi.

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Continua implacabile il walzer della britishness d'esportazione. La sua icona è Rupert Everett, che della sua affettata ironia e della sua deliziosa rigidità, entrambe squisitamente britanniche, ha fatto il marchio di fabbrica della sua rinascita. E poi basta un tocco di Londra georgiana, bianca e splendente, qui, un vestito candido davanti a una tazza di te là, ed è servito un perfetto concentrato di britannicità globalizzata. Per non parlare poi dell'import-export delle attrici americane, tutte selezionate in base al capello biondo e alla guancia rosata, tutte letteralmente fameliche di tenere eretta la schiena, alto il mento, e lanciarsi in una perfetta, e perfettamente levigata, ricostruzione dell'amato-odiato accento british. È toccato (spesso) a Gwyneth Parltrow, che tra Sliding Doors e Emma è divenuta bersaglio di (autentico) sarcasmo inglese, con la stampa che sogghigna per il piacere che l'attrice sembra provare ogni volta che ha l'occasione di pronunciare "Peetaa" in luogo di "Peter". È toccato a Bridget Jones-Renée Zellweger, che però è un'intoccabile per la simpatia e la sfacciataggine con cui si è saputa mettere in mostra nel film di Sharon Maguire. E questa volta tocca all'astro emergente, nonché quasi simultanea Sweet Alabama-girl Reese Whiterspoon, che ha dovuto misurare la propria dizione con quella assolutamente perfetta di Colin "Mr Posh" Firth e con il testo di Wilde.

Venendo a quest'ultimo, Wilde vale come mille Shakespeare quanto a rischi di compiacimento calligrafico e cinematografia da Esposizione Universale. I suoi testi trasudano quell'arguzia inglese condita di frivola mondanità e soffice estetismo per cui tutti, produttori in cima, vanno pazzi. E in suo onore si convocano le icone d'esportazione di cui sopra e le glorie di solida matrice teatrale (ma solidamente arci-note all'estero nonché premiate da Oscar) come Judy Dench. Il risultato non può essere pessimo. È impossibile vista l'oggettiva bravura degli interpreti e l'incontestabile bellezza del testo di base. Ma se la regia non ci mette la minima personalizzazione, ovvero si limita a filmare una messa in scena, e soprattutto se la scena viene lasciata alle gigionerie e alle affettazioni di un manipolo di attori, Everett in testa, la cui prima indicazione ricevuta è senza dubbio quella di essere il più possibile inglesi, allora questa Britishness d'esportazione, per quanto gradevole e sicuramente rassicurante, inizia ad essere un po' fastidiosa.

Titolo originale: The importance of being earnest
Regia: Oliver Parker
Sceneggiatura: Oliver Parker dall'opera di Oscar Wilde
Fotografia: Tony Pierce-Roberts
Montaggio: Guy Bensley
Musica: Charlie Mole
Scenografia: Luciana Arrighi
Costumi: Maurizio Millenotti
Interpreti: Rupert Everett (Algy), Colin Firth (Jack), Frances O'Connor (Gwendolen), Reese Whiterspoon (Cecily), Judi Dench (Lady Bracknell), Tom Wilkinson (Dr. Chasuble), Anna Massey (Miss Prism), Edward Fox (Lane), Patrick Godfrey (Merriman), Charles Kay (Gribsby)
Produzione: Barnaby Thompson per Canal +/Ealing Studios/Film Council/Fragile Films/Miramax Films
Distribuzione: Medusa
Durata: 97'
Origine: Francia/Gran Bretagna/Usa, 2002

 

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