L’ironia di Pupi Avati al Bif&st2017

Avati ha rimesso in scena per il pubblico del Festival di Bari aneddoti simbolici della Bologna anni ’50, dove la sua schiva e rassegnata giovinezza prese a decollare con l’infatuazione per il jazz

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Preceduto dalla proiezione del film Una gita scolastica, Pupi Avati ha dominato il palcoscenico del Petruzzelli cavalcando con vivacità l’onda dei ricordi e trascinando il pubblico in un’autentica dichiarazione d’amore per la vita che sottende l’arte.
Avati ha voluto ripercorrere le tappe della sua carriera cinematografica, a patto che potesse ammantarle di felicità, di quella divertita bellezza collaterale con cui ora il suo sguardo maturo e arguto travalica le ingiustizie, i fallimenti e i sogni infranti del futuro che sarebbe stato e potrebbe essere. “Io appronto ogni sera il mio discorso di ringraziamento per l’Oscar, non mi è ancora servito, ma qualcuno lo capirà che sono pronto. Il mio discorso sarà strabiliante, prima o poi lo ascolteranno. È nella spudoratezza del sogno che si sopravvive ai dolori della vita”.

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Come interpretando piccoli sketch (che la dicono lunga sulle sue capacità affabulatorie e sulla direzione attoriale) il regista ha rimesso in scena aneddoti simbolici della Bologna anni ’50, dove la sua schiva e rassegnata giovinezza prese a decollare con l’infatuazione per il jazz. Ed è da questo momento in poi che i ricordi e le emozioni si affidano agli incontri che hanno irrimediabilmente segnato la sua parabola umana e artistica.
Una personale e divertita storia del cinema che va dall’odi et amo che lo lega a filo doppio a Lucio Dalla, il genio del clarinetto contro cui non potè mai competere, alla devozione e alla gratitudine per la moglie, sempre presente anche negli anni più turbolenti ed oggi sua fortunata e indissolubile memoria; dal colloquio di lavoro con Vittorio De Sica, ormai malato, ma quanto mai distinto e sibillino, al pedinamento per le strade di Roma di Federico Fellini, così ammirato eppure così psicologicamente dipendente dall’approvazione altrui al tramonto del successo; sino agli azzardi professionali che lo portarono a scoprire talenti sconosciuti, rivelatisi indimenticabili, su tutti Mariangela Melato.
Nel rievocare gli insuccessi dei suoi primi film di genere horror, Avati confessa di essere oggi preda di una certa nostalgia per l’autore degli esordi che fu, anzichè scherzando di un certo “rimbambimento senile”.

“Il cinema che da ragazzino mi ha stregato, il cinema fantastico, che mi ha spinto a narrare del mondo contadino, è tornato a sedurmi dopo lungo tempo, con una gran voglia di ritrovare nella mia immaginazione il sentimento della paura. Ho scritto film e storie sulla paura ed è proprio ad un ritorno al cinema di genere che penso”, conclude il regista anticipando la storia su cui è al lavoro: “Una storia macabra, ambientata durante l’alluvione del Polesine del 1951, quando dai cimiteri allagati le bare presero a galleggiare, a superare le mura disperdendosi verso il mare e la gente si affannava a recuperare i cadaveri. Io racconto cosa accadde alle bare di due fratelli, mai rinvenute”.

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