Lo straordinario viaggio di T.S. Spivet, di Jean-Pierre Jeunet

T.S. è un bambino prodigio, un ragazzetto di appena dieci anni dallo straordinario talento scientifico e dall’intelligenza pronta a ogni difficoltà. Viene da una strampalata famiglia del Montana. Il padre è un cowboy all’antica, decisamente fuori tempo massimo nel suo culto dell’azione e del silenzio. La madre (la sempiterna Helena Bonham Carter) è un’entomologa nevrotica, assorbita nella sua ossessione per gli insetti, anche per reazione all’ascetismo western del marito. La sorella Gracie è un’insopportabile quattordicenne frustrata dalla vita dura di quel lembo sperduto d’America. L’unico vero compagno di avventure di T.S., il fratello gemello Layton, è morto in maniera tragica, colpito da un proiettile di fucile sparato per gioco nel fienile. Il povero T.S. si sente in qualche modo responsabile della disgrazia e vede rafforzarsi il suo senso di colpa nel freddo, distratto, se non addirittura ostile, atteggiamento dei familiari nei suoi confronti. Ma T.S. ha un obiettivo, essere un inventore, addirittura il più grande di tutti i tempi, capace di scoprire il segreto del movimento perpetuo. Per questo si lancia in un viaggio clandestino attraverso gli States, alla volta di Washington. Dove lo attende la gloria. O la vergogna.

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Jeunet costruisce un altro apologo, declinato in chiave “fanciullina”, sulla rivincita. Un personaggio condannato a essere un disadattato, che riadatta il mondo intero a sua immagine e somiglianza. Il favoloso mondo di T.S., dunque, con gli oggetti che prendono vita e forma davanti ai suoi occhi, mentre i vivi, le cose di carne e sangue, sembrano non averle più, le forme. Un corso di sopravvivenza intrapreso come se fosse un gioco infinito, la ricerca dell’espediente (e il piccolo protagonista ne escogita a decine), dei meccanismi segreti che possano rimettere in sesto le cose. E alla fine del viaggio, l’ovvio punto di arrivo del superamento del lutto e della riscoperta dei legami.

Nulla di straordinario, dunque, e non è detto che sia un male. Ma il cinema di Jeunet sembra sempre prendere il volo, seguire le mille strade dell’invenzione, per poi conformarsi alla razionalità matematica di una scrittura a tavolino, alla cartografia precisa dei sentimenti, dei punti di svolta e dei possibili approdi. Un cinema letteralmente “fantascientifico”, quindi, che dichiara la sua apparenza fantastica, per poi mostrare puntualmente la sostanza scientifica della sua spettacolarità. Sì, probabilmente Jeunet si muove lungo quell’orizzonte creativo che va da Gilliam a Burton, ma non sposa né la distruttività punk del primo (“reazionaria” se vogliamo), né la malattia dark del secondo. Il suo T.S. (o meglio il bravissimo Kyle Catlett) sembra venir fuori da un altro mondo di cartapesta di Wes Anderson, per poi scontrarsi con la pienezza di prospettive della “vita vera”. Resta, quindi, una figura fuori posto. Il punto è questo. Non ci si affeziona mai davvero ai personaggi di Jeunet, come se non si riuscisse mai a trovare in loro l’altro lato, quello nascosto, quello che non appare, ma che traspira dalla superficie dell’immagine. La terza dimensione resta un effetto speciale, una specie di utopia.

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