#Locarno68 – No Home Movie, di Chantal Akerman

Il cinema è la vita senza tempi morti, si dice. Non è mai stato così per l’artista belga, che ha invece fatto degli interstizi tra l’azione narrativa un momento privilegiato d’ascolto e osservazione

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Fanno male quei buuu che accolgono i titoli di coda di No Home Movie, ultimo lavoro di Chantal Akerman presentato oggi in Concorso. Non sono molti e mitigati da applausi, ma ci si stupisce del poco rispetto verso un’opera che non per il nome della sua autrice ma per il privato che mette in scena meriterebbe ben altra considerazione.

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Il cinema è la vita senza tempi morti, si dice. Non è mai stato così per l’artista belga, che ha invece fatto degli interstizi tra l’azione narrativa un momento privilegiato d’ascolto e osservazione, non meno rivelatore delle parole, dei gesti, dei movimenti.

In questo suo intimo ritratto della madre a parlare sono quindi anche le stanze di una casa che ha visto scorrere intere esistenze: quella di un padre già fuori campo, delle badanti colte in momenti di quotidiana attività, della donna anziana che passa da un ambiente all’altro lentamente, attraversando l’inquadratura, incurante di quello strano oggetto che la figlia le punta sempre addosso “Perché mi riprendi sempre?”.


no home movieDall’altra parte dell’obiettivo c’è Chantal, non l’artista, la cineasta rigorosa, dall’intensa vita artistica che la madre si lamenta di non conoscere. Quel lato sarà esplorato da I don’t belong anywhere, documentario sulla Akerman presentato sempre al Festival tra le Histoires du cinéma.
Qui è semplicemente Chantal, una figlia che tenta di fissare nell’unico modo che conosce il volto materno tanto amato, prima che svanisca definitivamente.
Un volto e un corpo che portano addosso i segni di un Novecento segnato dagli orrori della guerra, indagati incessantemente dall’occhio ormai digitale della figlia, nei gesti senili che risultano buffi o teneramente infantili. “Un bambino vede quel che vede, no?”, dice la Akerman ricordando il suo terrore per la figura della nonna paterna, di cui non comprendeva i segni della malattia.

Allo stesso modo, la madre, nel tentativo di mantenere vivo un dialogo con la figlia lontana, si presta a questi strumenti della contemporaneità, rivelandone i paradossi: il “parlare di tutto senza raccontare veramente niente”; l’invadenza di una comunicazione che non conosce pausa tra svago e lavoro “non devi giustificarti, dimmi quando devi andare e basta, ci salutiamo”.
Di questo nuovo mondo la madre della Akerman è una testimone involontaria (“un film sul mondo che cambia e che mia madre non vede”) anche se molto meno inconsapevole di quanto appaia, benché tutto avvenga altrove, tra un settembre e l’altro.
Quello che resta alla fine, il momento privilegiato dell’opera, è il tentativo di filmare il tempo attraverso il legame più potente che ci sia, dove la ricerca concettuale si apre a un momento di intimità condivisa che ci sembra una scommessa, un grande atto di fiducia verso il cinema e verso il pubblico.

 

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