#Locarno69 – Conversazione con Bill Pullman: “A guy who didn’t get the girl”

l’attore americano ripercorre una carriera attraverso generi opposti, dal comico all’horror. Svelando l’equivoco sulla sua predilezione per le rom-com: meglio essere il tipo buffo che avere la ragazza

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Forse, passati i tempi di Balle spaziali, nessuno se lo ricordava così brillante. Invece Bill Pullman arriva sul palco di Piazza Grande nella serata d’apertura, per ritirare l’Excellence Award che lo sponsor Moët & Chandon cgli ha conferito quest’anno, ironizzando sia sullo champagne sia sulla propria filmografia, non proprio aggiornatissima: “Guardando le clip dei miei film non ricordavo di aver girato una scena in cui stappavo una bottiglia…poi ho capito che era uno spot…”. E continua, mostrandosi particolarmente lusingato dai complimenti della bella rappresentante aziendale che gli consegna la statuetta, con sguardi e ammiccamenti a parte verso il pubblico, da commedia plautina.

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Eppure, proprio durante la carrellata dei ruoli più celebri – dal replicante di Ian Solo nella paradodia di Star Wars di Mel Brooks al Presidente degli Stati Uniti di Independence Day al musicista lynchiano di Strade perdute, ci si rende conto di quanto il suo volto abbia attraversato il cinema gli anni Novanta, con una maschera neutrale in grado di fargli affrontare in maniera credibile ogni genere, dalla comico al noir.

Ed è proprio sul suo trasformismo che verte, inevitabilmente, anche la conversazione con il pubblico locarnese, nel gremitissimo spazio Forum.
Sesto di sette figli – racconta – ha avuto la fortuna di avere genitori talmente esausti dal controllare le vite dei suoi fratelli più grandi da averlo lasciato libero di fare quel che più gli piaceva, supportandolo anche nelle scelte meno convenzionali: non solo la recitazione in sé, ma l’esordio in una pièce di Ionesco. Nel frattempo, però, comincia anche ad insegnare, in un bisogno di apprendere, guardarsi attorno e crescere, che segue percorsi diversificati finché uno non si impone da sé: “l’insegnamento era stato un arricchimento ma quando ho cominciato a lavorare in tv ho deciso che era il momento di chiudere.”

bill pullman locarno
Durante l’incontro Pullman si mostra più ribelle di quello che sembrerebbe a prima vista, con l’aria da bonario docente di un college del Connecticut, dovuta anche alla barba argentata che lo fa somigliare al Robin Williams di Will Hunting. Restio a essere etichettato nei cliché di Hollywood, si rivela a disagio anche nel ruolo del mentore che per esperienza vorrebbero attribuirgli: “Sono incuriosito quando mi chiedono dritte per giovani attori: io non ho mai ascoltato la maggior parte dei consigli”.

I suoi inizi, dice, sono stati costellati di episodi buffi: “il mio esordio ha a che fare con i miei capelli…e con dei problemi di ricrescita. In uno spettacolo interpretavo un russo che doveva essere biondo, perciò mi tinsi i capelli ma mi sentivo estremamente ridicolo. Ero molto sorpreso quando mi affidò la parte e si raccomandò di tenere i miei capelli. Temevo mi licenziassero per la ricrescita. Mi tranquillizzai solo quando mi dissero che potevo ritingerli”.

Fortuna volle che Mel Brooks, “uno dei più grandi geni che abbia mai incontrato”, avesse posato il suo sguardo su di lui: “Venne a vedermi a teatro e mi scritturò”. La sfida del suo ruolo in Space balls sta non solo nell’interpretare la parodia di un personaggio esistente – “John Candy e Rick Moranes erano a loro modo facilitati dalla parte così come era stata scritta” – ma nel entre io avevo meno appigli ma Mel mi incoraggiò a trovare la mia strada per raccontare il personaggio”.

walter_sleepless_in_seattleDa lì in poi è tutta una carrellata di generi, registi, che rendono il decennio che sta per iniziare, il più denso della sua carriera.

Con Turista per caso di Lawrence Kasdan, Ragazze vincenti di Penny Marshall, Singles di Cameron Crowe, ma soprattutto Insonnia d’amore di Nora Ephron e Un amore tutto suo, accanto a Sandra Bullock, Pullman diventa – suo malgrado, ci dirà – il volto della commedia sentimentale, nonostante non manchino incursioni felici in generi assolutamente distanti, come Il serpente e l’arcobaleno di Wes Craven.

Ma quella con il regista che ha segnato gli incubi di intere generazioni tra gli anni Settanta e Ottanta, è per lui un’esperienza insolita, quasi un reportage: “Ero sempre con Wade Davis (l’antropologo autore del libro che ha ispirato Craven, ndr) e per me era come fare un documentario più che un horror di finzione perché Wade mi faceva vedere le cerimonie voodoo insegnandomi molto su questo differente sistema di credenze”.

Come avvenne poi il passaggio alla romantic comedy non se lo spiega neanche lui: “Non mi sono mai molto identificato in un tipo romantico. Mi sento molto più a mio agio nell’essere quello stupido o strano. Non sono stato geloso dei miei colleghi che ottenevano il ruolo da protagonista. Sono sempre stato lo sconfitto in amore, fatta eccezione per While you were sleeping, ma lì era concorrenza sleale col povero Peter Gallagher in coma…Ho sempre pensato che fosse meglio essere il coprotagonista che non ottiene la ragazza, è molto più divertente. Mi identificavo molto nei ruoli di Ralph Bellamy (in età matura il cinico Randolph Duke di Una poltrona per due, ma con alle spalle una carriera da caratterista sempre perdente nei triangoli sentimentali dello Studio System, ndr). “I’m the guy who didn’t get the girl”.

independence dayIl rapporto conflittuale con Hollywood emerge anche riguardo alla partecipazione ai blockbuster, seppure quello del Presidente degli Stati Uniti d’America in Independence Day, in un cast all stars messo insieme da Roland Emmerich, gli abbia regalato uno dei suoi maggiori successi: “Non ho fatto più altri disaster movie, uno era sufficiente. Independence Day ha ispirato negli anni numerosi film del genere ed è stata una bella esperienza, all’interno di un ensemble pronto a seguire la visione di Emmerich, straniero in America, ma non mi sono mai sentito a mio agio in questo tipo di film, nei successi da box office.
Del ruolo mi piaceva il fatto che fosse un uomo privato delle sue certezze, ma costretto malgrado tutto a fare forza a persone che credono in lui e nei valori che rappresenta. La celebre scena, vista anche ieri sera in Piazza Grande, in cui motiva i superstiti a lottare, a resistere contro qualcosa con cui non si è mai confrontato, era bella per questo motivo”.

Un approccio psicologico al personaggio che ha dovuto abbandonare lavorando con David Lynch in uno dei suoi capolavori, Strade perdute. “Lynch è un regista più simile a un visual artst. Trova riduttiva la psicologia, anzi la odia! Mai chiedergli, da attore, “Qual è la mia motivazione?” A me rispose: “The illumination of dream”. Ricordo quanto importante fosse il nero per David, il buio che conduce dalla realtà all’atmosfera onirica. Il mio viaggio nel film è stato soprattutto un viaggio nell’oscurità. Lavorare con David ti cambia, stimola la tua creatività, ricordo che Patricia Arquette, terminate le riprese, voleva scrivere un romanzo”.

Resistere a Hollywood per più di un decennio significa anche vivere i propri esordi cinematografici con i padri, per tenerne poi a battesimo, all’apice della carriera, i figli. Ma se con i Kasdan l’incontro con Jake avvenne nelle pause di Wyatt Earp “Non essendo neanche qui il protagonista, avevo molto più tempo di Kevin e il modo migliore per occuparlo era chiacchierare con il figlio di Larry, questo ragazzino che, a soli 13 anni, era la persona più interessante del set. Anni dopo mi avrebbe diretto in Zero Effect”. Al contrario, fu Jennifer Lynch prensentarlo al padre David. “Lei al tempo stava già lavorando a una prima versione di Boxing Helena, che avrebbe dovuto avere per protagonista Madonna, e mi aveva scritturato come suo partner. Poi il film ebbe dei ritardi produttivi ma David stava preparando Lost Highways e lei gli suggerì il mio nome”.

Negli anni Pullman dirada le sue presenze su grande schermo, i suoi sono ritorni sempre più occasionali: il ritorno nel sequel di Independence Day, a venti anni di distanza, il cui confronto con l’originale quasi lo immalinconisce, per la diversità dei processi della computer grafica, lui che rivendica l’importanza del set “è l’esperienza più pura dopo quella teatrale”.
Un amore per il set e la scena teatrale da fargli dire senza esitazione che il suo sogno sarebbe essere diretto da Lars Von Trier (conosciuto come produttore di Vinterberg durante le riprese di Dear Wendy), in un’opera scarna ed estrema alla Dogville.

Ha invece posizioni più morbide quando racconta l’esperienza nella serialità. Il suo ruolo nella serie della BBC Torchwood, anagramma (e spin off) del cult Doctor Who, è quello di “un serial killer che non può essere ucciso. Un personaggio veramente curioso, dal passato così oscuro, che cerca di rinascere”.

Inevitabile la chiosa sulle imminenti elezioni presidenziali, lui che Presidente in una situazione di crisi lo è stato: Supporto Hillary Clinton, ovviamente. Credo che in ballo ci siano sfide molto serie e trovo che questa divisione così netta sia uno specchio di tempi fuori controllo, dove la possibilità di fare la scelta sbagliata è un impulso oscuro”. E quindi a chi gli chiede se l’ipotesi di Trump presidente somigli più a un film di Mel Brooks o a quelli di Lynch risponde: “Vorrei tanto che fosse come un film di Mel, ma credo finirebbe per essere un incubo lynchiano”.

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