#Locarno69 – “Non aspettate Hollywood”. Conversazione con Harvey Keitel

Gli esordi con Scorsese, la scoperta di Tarantino, l’attaccamento a Il cattivo tenente. Harvey Keitel riassume così la sua carriera: “Ho sempre cercato di scoprire chi stesse bussando alla mia porta”

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Dopo aver ricevuto in Piazza Grande il premio dalle mani dell’amico Abel Ferrara, Harvey Keitel incontra il pubblico del Festival, come tradizione degli ospiti insigniti dei numerosi Award.

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I posti sono esauriti e intorno allo spazio Forum, sotto il sole, i tanti accreditati rimasti fuori restano in attesa. Quando Mr. Harvey Keitel arriva, in discreto ritardo, iniziano a scattare fotografie senza sosta.

Dopo essersi accomodato e aver chiesto se qualcuno volesse un po’ della sua sprite, Keitel è finalmente pronto alla confessione a cuore aperto che queste conversazioni locarnesi spesso diventano. “Chiedimi tutto ora, perché non ci sarà un’altra volta”, dice all’intervistatore.

E allora si comincia, e come ogni bella storia si parte dal “C’era una volta”, dagli esordi con il compagno di studi Martin Scorsese, che è il primo di tanti giovani e/o esordienti (Tarantino, Abel Ferrara, Jane Campion…) con cui, nell’arco di una carriera di almeno cinque decenni, si è trovato a lavorare. Come mai questa predilezione per i nomi sconosciuti?

whos_that_knocking_2Martin Scorsese

Bè anche io sono nato ‘sconosciuto’ e nella mia vita ho sempre cercato di capire chi ero. Queste sono persone che ho incontrato lungo la strada. Martin, per esempio, l’ho conosciuto alla NYU, girammo Who’s knocking at my door, che era un film in 35 mm, fatto proprio durante il college. Tempo fa gli dissi ‘Martin, hai rifatto quel film per tutta la tua carriera! Anzi, lo abbiamo fatto entrambi, perché anche io ho continuato a chiedermi ‘chi bussasse alla mia porta…’

Ci siamo incontrati da studenti, io studiavo Recitazione e mi arrangiavo con dei lavoretti. Ero stato anche nei marines. Martin stava facendo dei provini, io andai al terzo, in un posto completamente buio.
Entro e in sala c’erano solo delle persone che lavoravano con lui. Prima mi dissero ‘Siediti!’ poi ‘Alzati!’. Poi ‘Vai in quel corridoio dove c’è la luce accesa’…Entro in quella stanza e c’è una scrivania con un tizio seduto, come in una stazione di polizia. Io gli chiedo chi fosse e lui “Siediti, cazzo!”. Io rispondo “Come scusa?”, “Siediti, ti ho detto!”. Vado verso di lui e sto quasi per picchiarlo al che sento “Harvey, no! È un’improvvisazione!”. Era Martin. Gli dissi “Beh, la prossima volta se è un’improvvisazione, devi dirmelo dopo”.

Ognuno di noi aveva un background simile, venivamo da famiglie di immigrati, io mezzo italiano e mezzo romeno, Martin italiano, lui cattolico e io ebreo. Stavamo con la gente del quartiere, e questo ha fatto sì che diventassimo amici molto velocemente. Per girare usammo il suo appartamento a Little Italy. Ricordo che giravamo una scena in cui io e l’attrice eravamo a letto, torna il padre di Martin stanco dal lavoro, voleva cenare e cominciò a dire ‘Che cazzo fate, andatevene’, dovette intervenire la madre a dirgli di aspettare che finissimo.

Quando Martin mi chiese se volevo vedere il girato di Who’s knocking at my door, mi mostrò le immagini riprese dentro una chiesa a Little Italy, con tutte queste riprese di icone sacre, su cui aveva montato una canzone e lì capii che aveva davvero un talento speciale.

Le differenze con Scorsese riguardano soprattutto la cinefilia e il grado di conoscenze in campo cinematografico: se Scorsese divorava film, da quello classico hollywoodiano a quello europeo e soprattutto italiano, per Keitel è una conquista graduale: “Quando entrai nei marines avevo solo 17 anni, la mia esperienza come spettatore di cinema avvenne più tardi. Ricordo l’amore per Chaplin, quando vidi Luci della città e l’impressione che mi fece il suo modo di recitare…lui era tutta un’altra cosa. Poi pian piano venne il resto e come per tutti all’epoca, anche i miei modelli erano Brando, James Dean, i film di Cassavetes”.

Il cinema italiano

Dopo Scorsese, l’incontro con il cinema d’oltreoceano. Bertrand Tavernier è il primo regista europeo a chiedergli di lavorare. Poi negli anni verranno Ettore Scola, Lina Wertmuller, poi Dario Argento, fino a Paolo Sorrentino, con cui ha desiderato lavorare dopo aver visto La grande bellezza. “Nel cinema italiano ho avuto il privilegio di lavorare con artisti di talento. Tutti siamo stati influenzati dal cinema italiano. Prendete L’albero degli zoccoli…vorrei fare tutti film come quello. L’italia ha un patrimonio così forte, a cui però mi sembra che ultimamente stia ritornando”. 

ieneQuentin Tarantino

Quando l’ho conosciuto lavorava in un videostore. Una donna, che aveva conosciuto il produttore, mi fece leggere la sceneggiatura di Reservoir Dogs, una delle cose più insolite che mi fossero capitate davanti. Mi toccò, come accade quando hai una rivelazione, quando qualcosa si presenta ai tuoi occhi come un’opera d’arte. Ci incontrammo e iniziammo a lavorare al progetto. Venne da me e lui aprì il frigorifero, una…due…tre volte. Quello che ricordo di quel periodo è che Quentin aveva una sempre fame incredibile. Non aveva soldi e quando veniva a casa mia ne approfittava per ripulire il frigo!

Il periodo più prolifico della carriera è quello tra fine anni Ottanta e inizio Novanta. Arrivano ruoli importanti ma che ridefiniscono anche la concezione di male lead: “Li usai per avere il potere di dedicarmi ai progetti che realmente mi interessavano. Quello è l’inizio del mio viaggio nel cinema indipendente. Dico a tutti gli sceneggiatori e i registi giovani Non aspettate Hollywood. Hollywood non ha niente da insegnarvi, vi troverà se racconterete la vostra storia”.

harvey3Abel Ferrara

Quando gli arriva la sceneggiatura di Il cattivo tenente di Abel Ferrara il primo impatto non è dei migliori: “Era scritta con un carattere enorme. Erano in tutto 23 pagine, lessi qualcosa e mi sembrò un gran casino e la buttai nel cestino. Però mi dispiaceva, mi sentii in colpa. Allora gironzolai un po’ per casa, la ripresi dal cestino e continuai a leggere e arrivai alla scena della suora. Era descritta in maniera meravigliosa.

Quella parte non era di Abel, ma di Zoe Lund, purtroppo morta troppo presto, per overdose, che resta una delle più importanti anime creatrici del film. Era molto profondo, e capii cosa potevo fare di quel materiale. Fu parlandone che riempimmo poi il materiale e demmo vita al film così come lo conoscete. Abel  ha un carattere particolare, ma ho molto rispetto per il suo lavoro, spero avremo ancora occasione di lavorare insieme.

Al Cattivo tenente sono molto legato, quel film è qualcosa che è andato oltre me stesso, per me è stato un tributo ad Abel e Zoe che sono i veri creatori”.

Il Metodo

All’università si è formato, comme il faut, sul metodo Stanislavskij, ma nessuno definirebbe Keitel un attore dogmatico. E infatti, dice lui, “la tecnica rimane la stessa, quello che però ho imparato da giovane a New York che l’importante è quello che prendi, che impari da ciò che ti circonda. Nessuna tecnica può supplire a te. La tecnica si impara velocemente, ma come utilizzarla si impara col tempo, con l’esperienza, e possono volerci anni e anni.

La tecnica è quindi un modo di accesso a una ricerca interiore, elemento su cui Keitel insiste particolarmente e che è, secondo lui, alla base della stessa arte cinematografica: “Le culture sono diverse ma c’è di base un desiderio comune di autenticità. Sono diversi i personaggi ma la mitologia è sempre la stessa. Io cerco ancora me stesso e così tutti i grandi personaggi, i grandi registi che abbiamo citato. Sono stato contento di scoprire che Smoke proprio qui a Locarno avesse vinto il Premio del pubblico. Quello era un film in cui ci siamo tutti buttati con grande passione”.

E non fu un colpo di fulmine ma un amore graduale: “Quando lessi lo script era il più lungo che avessi mai letto e mi sembrò incredibilmente noioso. Ma pensavo anche che doveva pur esserci qualcosa e girai il film proprio per trovare quella cosa. E girandolo capii cos’era”.

Harvey2Arrivano poi le domande del pubblico, che lo confermano un attore assai poco legato allo star system: Quando gli chiedono il momento più bello nello showbusiness, risponde:“Quando è nata mia figlia e io non andai a teatro quella sera, ma all’ospedale a conoscere la mia bambina”. O ancora, sul tempo che passa e la vecchiaia come interprete: “Questa è l’età migliore della mia vita. Ho una fantastica moglie, un figlio di dodici anni. La vita è bella”.

Se sull’inevitabile tormentone della domanda-Trump, sottoposta a chiunque, al festival, possieda un passaporto americano si irrigidisce: “Siamo qui per parlare di cinema, tutti comunque in America si stanno adoperando per far sì che le cose vadano per il meglio”, sul tema della violenza, lui che da attore ha interpretato molti ruoli controversi in tal senso, è invece più sensibile, non tanto come interprete ma soprattutto come padre. “Bisogna imparare che cos’è la violenza. Quando vedo mio figlio di 12 anni giocare con i videogiochi, dove non è reale, sento il dovere di aiutarlo a capire che un pugno in faccia fa male e che il dolore è reale. Bisogna insegnargli che è nell’ordine delle cose, della vita, mentre la scelta di usarla o meno è una questione morale”. 

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