#Locarno70 – Ibi e Granma. L’Italia riflette sull’immigrazione

Granma di Alfie Nze e Daniele Gaglianone e Ibi di Andrea Segre segnano un percorso di riflessione ed analisi sull’immigrazione. Entrambi in fuori concorso

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Nelle esperienze festivaliere sono poche le volte in cui due film, diversi per storia e genere, sono stati in grado di completarsi e segnare un percorso univoco così coerente come quello visto oggi nel Fuori Concorso di Locarno. Perché se la visione in sala, e soprattutto quella all’interno di una manifestazione, ha ancora un senso è in parte dovuto a queste connessioni che si creano tra prodotti che non erano stati pensati per averne. Almeno questo è il caso di Granma di Alfie Nze e Daniele Gaglianone e Ibi di Andrea Segre, entrambi selezionati per il fuoriconcorso della manifestazione svizzera ed intelligentemente proiettati uno dietro l’altro. Il primo è un cortometraggio ambientato in Nigeria che ha come protagonista il giovane musicista Jonathan a cui viene comunicata la morte del cugino nelle strade del villaggio; il secondo è un documentario incentrato su Ibi, donna nata in Benin da anni residente a Castel Volturno, in cerca di un riconoscimento da parte dello stato italiano. Se è evidente che entrambi condividono l’obbiettivo della divulgazione sul delicato argomento dell’immigrazione, è altrettanto ovvio che si soffermano su fasi diverse che si possono chiaramente distinguere in un prima ed un dopo. Si potrebbe anche dire che uno è la conseguenza dell’altro in un processo in cui viene saggiamente aggirato il procedimento. Infatti il difficoltoso viaggio che attende chi decide di emigrare dalle zone di guerra verso l’Europa rimane solo sullo sfondo di tutti e due i film che preferiscono concentrarsi sul perché e sul cosa. Alfie Nze,gif critica 2 spinto anche da motivazioni autobiografiche, e Daniele Gaglianone provano a rispondere ad entrambe le domande contestualizzando una storia non solo nella situazione politica di un paese, ma anche in quella culturale. Centrale in tale discorso è la sequenza iniziale in cui il mentore musicale del protagonista rimprovera come i giovani ormai abbiano smesso di parlare il pidgin prediligendo invece la lingua occidentale. Un monito che si trasforma in un’imposizione per Jonathan che evidentemente non si sente legato alle sue origini in maniera cosi viscerale come ci si aspetterebbe. Colpa della globalizzazione o semplicemente dell’idolatria costruita attorno a dei paesi in pace ed in grado di offrire un futuro, o meglio un miracolo come si ascolta nelle note della sua canzone. Un miracolo di cui è stata già investita invece Ibi che nel film di Segre si trova ad essere completamente integrata nella società campana e nel suo lavoro da filmmaker e fotografa dopo essere entrata illegalmente nel nostro paese. Ad andarle ancora contro resta però la burocrazia e la legislazione italiana che non hanno ancora sbrigato la pratica per renderla una vera e propria cittadina. Ed allora dove si colloca l’identità: è un’istituzione, come cerca Ibi, o un sentimento, come cerca di dimostrare Jonathan? Se sulle questioni di cosa abbia spinto i due a pensare l’occidente come terra di miracoli entrambi i film sembrano rispondere in maniera molto precisa, rimane invece labile la domanda sull’identificazione. Diventa irrilevante quindi il fatto che uno sia un film di finzione (adattamento, tra l’altro, di un soggetto di Gianni Amelio) e l’altro un documentario girato con immagini montate dalla stessa protagonista, perché l’obbiettivo alla base rimane lo stesso.

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granma

Strana coincidenza che si trasforma nell’ennesima linea di congiunzione tra i due è l’utilizzo della tecnica. Guardandoli in sequenza infatti ci si ritrova a notare una serie di fuori fuoco: scelta stilistica per uno, necessità per l’altro. Anche qui poco importa cosa abbia spinto i due a tali soluzioni visive perché non avere mai una pulizia dell’immagine completa corrisponde esattamente ai confini labili tra le risposte che non si riescono ancora a focalizzare. È come se con l’esperienza condivisa della visione si volesse lasciare in quale modo aperta una riflessione che vada oltre l’impronta di denuncia morale che irrompe molto spesso nel nostro cinema. Un pensiero che viene materializzato nei personaggi chiave della nonna di Granma e nella voce fuori campo di Ibi che si fermano più volte a ricordare l’importanza di una contestualizzazione a tutto tondo. Della Nigeria va diversificato il villaggio dalla città, tra gli immigrati vanno distinti chi vuole tornare nel proprio paese e chi ha deciso di ricominciare in Europa. Una sensibilizzazione dunque alla battaglia contro la superficialità che spesso corrisponde ad una scrittura di immagini per il cinema molto precisa. Questa indole è infatti contenuta e, forse, anche a rischio di intaccare la chiusura narrativa che a volte viene meno nel quantitativo di diramazioni possibili sullo stesso argomento. Giustificato in questo frangente Granma, di cui si è detto essere un progetto iniziale per un lungometraggio, ma anche Ibi la cui struttura è stata notevolmente influenzata dal corso degli eventi. Rischi dunque che sembrano rientrare alla perfezione nell’approccio degli stessi creatori, le cui affinità devono esser state notate anche dai selezionatori del festival a cui si deve dare il merito di aver supportato una convergenza non banale di idee di cinema e di impegno civile.

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