#Locarno70. La retrospettiva su Jacques Tourneur

Da non perdere la retrospettiva sul cineasta che ha dato forma al soprannaturale con la strepitosa trilogia per la RKO e segnato indelebilmente la pagina del noir con Le catene della colpa

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Tra le cose imperdibili del 70° Festival di Locarno c’è la retrospettiva dedicata a Jacques Tourneur, curata da Roberto Turigliatto e Rinaldo Censi. Se fosse presente oggi, forse sarebbe uno dei più grandi registi di serie tv; verso la fine della propria carriera aveva diretto, tra gli altri, 8 episodi della serie western Nortwest Passage (1958), 11 di The Barbara Stanwick Show (1961), e anche uno di Bonanza (Denver McKee, 1960) e The Twilight Zone (Night Call, 1964). O anche di blockbuster. Proprio per come sapeva combinare la costruzione progressivamente incalzante dell’azione anche con scene altamente spettacolari (il combattimento finale tra le navi di La regina dei pirati del 1951 o le scene sottomarine del suo ultimo film, 20.000 leghe sotto la terra del 1965) e la costruzione di atmosfere fantastiche, oniriche e profondamente inquietanti. Ma soprattutto per come sapeva dare forma alla dimensione del ‘soprannaturale’; è stato questo infatti il termine che il cineasta amava utilizzare rifiutando invece quello di horror, pur arricchendo invece il genere di nuovi elementi. Nel 1971, in un’intervista a Bertrand Tavernier, disse: “Faccio dei film sul soprannaturale perché ci credo. Credo nel potere di morti e streghe. Ne ho perfino conosciute alcune nella preparazione di La notte del demonio”.

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il bacio della panteraIl cinema di Tourneur è legato inizialmente soprattutto alla trilogia a basso costo prodotta da Val Lewton per la RKO (Il bacio della pantera, 1942; Ho camminato come uno zombie, 1943; L’uomo leopardo, 1943). Sono stati questi infatti i film che non solo l’hanno lanciato, ma ne hanno evidenziato uno stile inconfondibile, in cui la tensione non si regge tanto sulla costruzione dell’azione ma sull’attesa di quello che sta per accadere. Dove l’elemento sonoro (i rumori sinistri) assumono un’importanza determinante assieme all’uso delle luci e delle ombre, di chiara derivazione espressionista. Perché proprio lì, in fondo, potrebbero esserci nascoste tutte le forme del male che agiscono sottotraccia.

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Eppure Tourneur a quella celebre trilogia ci era arrivato dopo una gavetta lunga più di 10 anni. Figlio del regista Maurice, era nato a Parigi nel 1904 ed emigrato negli Stati Uniti quando aveva 10 anni. Dopo varie mansioni come assistente alla regia e montatore, aveva diretto il suo primo film in Francia nel 1931, Tout ça ne vaut pas l’amour, aveva realizzato alcune sequenze di Le due città (1935) di Jack Conway e Maria Antonietta (1938) di W.S. Van Dyke e avla notte del demonioeva portato sullo schermo anche il personaggio di Nick Carter con Nick Carter, Master Detective (1939). Ma poi l’incontro con Val Lewton sarà per lui fondamentale. In Il bacio della pantera, oltre alla celebre scena della piscina, bastano anche i passi di una camminata nella notte a creare una dimensione inquietante e fantastica. Ancora più accentuata in Ho camminato come uno zombie, ambientato ad Haiti e ispirato a Jane Eyre di Charlotte Brontë, che trascina in un mondo parallelo, con apparizioni sinistre, metamorfosi del mostro (in questo caso lo zombie che è la moglie di un piantatore) che riprenderà forma anche nel grandioso La notte del demonio (1957), generato da un mago dell’occulto che porta a uccidere le persone che si occupano della sua attività. Ma soprattutto c’è L’uomo leopardo, altra autentica lezione di come filmare la paura; tutta la sequenza della ragazzina che esce per andare a cercare la farina o l’oscurità nel cimitero sono ancora lezioni di come dovrebbe essere mostrata al cinema la suspense, attraverso l’essenzialità del B-movie e la purezza di un cinema che trasmette impulsi, premonizioni nell’atto stesso del guardare. Tra l’altro quest’ultimo film potrebbe idealmente anticipare tutta la serie cinematografica sui serial-killer e sulla metamorfosi bestia-umano. Qui a scatenarla basta anche il rumore delle nacchere, altro esempio di come le suggestioni sonore nel cinema di Tourneur sembrano essere precise partiture di una sceneggiatura. Come nei film di Tati dove i rumori sembrano avere una sceneggiatura a parte.

le catene della colpaIl nome di Jacques Tourner resta anche legato a una pagina memorabile del cinema noir, con Le catene della colpa (1947) in cui emerge uno dei temi che hanno sempre segnato il suo cinema: l’ossessione del passato. Ed è così che il detective privato Robert Mitchum non può sfuggire, anche nel corso del tempo, al legame con il suo ex-datore di lavoro e la sua ex-amante, dove Jane Greer è una delle più rappresentative dark lady del decennio. C’è la predestinazione, il destino tragico, ma è ancora un cinema costruito su un ritmo interno, sulle attese (quella di un bar messicano) sul viaggio. E l’opera del regista è piena di viaggi, di mezzi di trasporto: il treno che fa da sfondo al solido Un treno ferma a Berlino (1948), thriller realistico realizzato nella Germania devastata dalla guerra e che apre, in mezzo a una tempesta, uno dei suoi titoli più fiammeggianti, Schiava del male (1944), altro torbido film sinistro che potrebbe anticipare idealmente Le catene della wichitacolpa e in cui ci sono echi di Fritz Lang nella figura della ‘donna del ritratto’ Hedy Lamarr. Ma che segnano anche il suo cinema western, da I conquistatori (1946), anche suo primo film a colori molto amato da Martin Scorsese a Stars in My Crown (1950), per proseguire con Il paradiso dei fuorilegge e Wichita (1955) che è un’altra variazione della figura di Wyatt Earp, da L’alba del gran giorno (1956) a Guerra indiana (1959), quest’ultimo considerato a torto uno dei titoli minori mentre resta esemplare la scena in cui vengono liberate le donne vendute come merce in un saloon-bordello. E, come afferma Renato Venturelli nel suo saggio nel Dizionario dei registi del cinema mondiale (a cura di Gian Piero Brunetta, ed. Garzanti), nei suoi western vanno sottolineati l’uso espressivo del colore e gli ampi spazi del CinemaScope “in un regista sempre molto attento ai vuoti e alle sfumature nella composizione pittorica dell’immagine”.

il gigante di new yorkLa sua opera spazia anche tra diversi generi, dal film bellico (Tamara, figlia della steppa, 1944 con il primo ruolo da protagonista per Gregory Peck) all’avventura con le forme del cappa e spada (La leggenda dell’arciere di fuoco, 1950) o ancora con le derivazioni di un western realistico girato in Argentina (Il grande gaucho, 1951). Di una ricchissima filmografia, che ha abbracciato circa 34 anni, vanno però ricordati anche l’ottimo mèlo Il gigante di New York (1949), quasi un ribaltamento del Sogno americano con Victor Mature campione di football che deve rinunciare alla carriera per problemi cardiaci a L’alibi sotto la neve (1956), da un romanzo di David Goodis, un secco noir dove il protagonista si trova ancora costretto a provare la sua innocenza, con un finale in uno spazio innevato che mette ancora in relazione continua i personaggi con il paesaggio. Da questo film, ma anche La notte del demonio (di cui esistono due versioni, una di 96 minuti e una di 83), il cinema di Tourner non sembra mai comunque abbandonare il respiro e l’atmosfere dei B-movie. E nei suoi ultimi due film, tratti da Edgar Allan Poe e prodotti dalla American International Pictures, sembra ritornare allo spirito della RKO, sia in quel piccolo gioiello macabro che è Il clan del terrore (1964) che riunisce icone horror rivisitate secondo Corman come Vincent Price, Boris Karloff e Peter Lorre, sia l’ultimo 20.000 leghe sotto la terra.

Nella ‘politica degli autori’ operata dai Cahiers du cinéma sul cinema hollywoodiano, il suo nome inizialmente non era rientrato, per poi essere  riscoperto negli anni ’60 anche grazie agli approfondimenti del critico Jacques Lourcelles. Locarno da oggi lo riscopre. È una di quelle retrospettive da non perdere per nessun motivo al mondo.

 

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