M.I.A. – La cattiva ragazza della musica, di Steve Loveridge

22 anni di filmati amatoriali, la vita dell’artista britannica di origine tamil Mathangi “Maya” Arulpragasam, ricostruita attraverso frammenti ritrovati. In sala dal 20 al 23 gennaio

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M.I.A. Missing in Acton (gioco di parole tra action e Acton, un sobborgo londinense). La pop star, la bambina tamil cingalese venuta dallo Sri Lanka e cresciuta come outsider a Londra, la figlia dell’attivista tamil Arul Pragasam, la cantante hip hop che si presentò accanto a Madonna al Super Bowl, l’attivista censurata da Youtube e dal governo degli Stati Uniti. Anche se il documentario di Steve Loveridge – presentato alla Berlinale 2018 e e vincitore del Premio della Giuria al Sundance 2018 – segue 22 anni della vita di Mathangi “Maya” Arulpragasam in un ritratto composto da filmati amatoriali, la cantante sembra ancora missing in action. Il racconto della sua vita, oppure il tentativo di raggiungere la definizione del fenomeno dietro una delle artiste più influenti al mondo – secondo la rivista Time – sembra un corpo sfuggente che si perde nello spazio/tempo, che non riesce a trovare calma, che si muove in continuazione tra ciò che è e che dovrebbe essere, in una dualità perenne, un movimento pendolare tra gli estremi di una stessa realtà. Una narrazione senza inizio né fine, dove non si riconosce bene da dove viene lo sguardo e chi segue chi, nemmeno quanto M.I.A. sia consapevole di essere diventata un oggetto di studio.

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All’inizio di Matangi/Maya/M.I.A, un’immagine si decompone. Come un caleidoscopio, un gioco di luci che costruisce per poi distruggere, che vuole far smarrire la figura corporea della cantante in centomila pezzi, per poi renderla un’altra cosa. Come se fosse in se stessa una narrazione fatta di pezzi, frammenti, salti nel tempo, storia e futuro, pace e guerra, frustrazione e successo. Lei come anticipo organico della narrazione visiva che sta per accadere. 

Come costante, il suo volto. Nascosta dietro le persone in un filmino familiare, in ansia nel

backstage di un concerto, assorta nei suoi pensieri mentre prova a spiegare a parole come funziona la sua mente. Sempre a riempire ogni angolo dell’inquadratura, anche nella sua assenza. Una passeggera in transito che crea la propria realtà sognata attraverso un dispositivo, un microfono che riprende i suoni quotidiani e li fa diventare musica. Dietro di lei, un regista – e amico sin dall’adolescenza – che rivela la sua volontà di mantenere una certa distanza, di costruire la propria versione di M.I.A. per mettere insieme dei pezzi che, forse, non riusciranno mai a trovare il frammento mancante. Ma la distanza non è possibile, una volta che diventa parte del tessuto della storia.

Forse questa è la sostanza e la particolarità della proposta di Loveridge, al di là del racconto “classico” dell’artista che prende il controllo della precarietà e della propria sofferenza per farla diventare musica e salvezza. Proprio l’ambiguità, la volontà apparente di dover essere “una cattiva ragazza” e la lotta privata per diventarlo davvero. Come se la vera causa fosse creare un’idea di se stessa e ripiegarla nei testi delle canzoni, nelle immagini di un videoclip che, se tutto va bene, finirà oscurato dalla censura. M.I.A. è anche un condensato di tutto ciò che muove i fili di questo decennio: la migrazione come diritto, la polemica dell’integrazione, il razzismo e il senso di appartenenza, la mobilità delle frontiere geografiche, politiche e sociali, il proprio Brexit privato, la paranoia e la paura alla diversità.

È come se tutto fosse parte di un lungo videoclip. Una cornice legittimata dove lei può essere regista della proiezione di se stessa. Dove i conflitti, l’esperienza dell’infanzia, i percorsi non risolti, i terroristi, gli immigrati, le navi piene di corpi indefiniti che cadono nel mare, diventano allo stesso tempo un’immagine di lotta e un oggetto di scena, un costume, un pezzo di cartone, una realtà che sparisce una volta che si spengono le telecamere e finisce la musica.

Alla fine, non si tratta della definizione di un concetto ma la decostruzione di un’idea. Nella sua frammentazione in melodia, volti e pezzi di storia – sempre nella direzione di quella “cattiveria”- Maya non riesce a perdere il candore. Perché la sua figura torna sempre indietro, ritrova il sorriso, l’interazione col figlio, la ragazza timida e piccola che si nasconde dietro una tenda e fa le coccole alla nonna una volta tornata nel suo natio Sri Lanka, in mezzo alla guerra civile. La musica, i testi, il linguaggio corporeo e i gesti calcolati e spontanei, sono tutti parte della costruzione di un discorso vivo, che non finisce mai di svilupparsi. Che le permette di viaggiare nel passato, tornare al presente, immaginare il futuro e rimanere sempre la stessa. Fatta di molecole che mutano ma non si dissolvono mai.

Titolo originale: Matangi / Maya / M.I.A.
Regia: Steve Loveridge
Distribuzione: I Wonder
Durata: 96′
Origine: USA, UK, 2018

 

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