Make people feel black: Atlanta

In un gioco labirintico di opposti, tra sospensione e senso di caduta, Donald Glover evoca la cultura dello hood per mostrare come la blackness sia un’idea intraducibile, multipla e divergente

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Leggenda vuole che, per far accettare ad FX Atlanta, una serie che, tra pieghe allucinatorie e l’urgenza di questioni come quella razziale, la divisione in classi sociali o le definizioni di genere, prende le mosse dal sottobosco del rap locale per mettere alla prova il punto di vista di chi guarda, ad impersonare il ruolo di cavallo di Troia, quello che in gergo televisivo è l’espediente per rendere vendibile un progetto altrimenti davvero troppo indigesto, sia stato proprio lo stesso ideatore, interprete e, in qualche episodio, regista della serie. Donald Glover è l’artista perfetto, così l’ha definito Vanity Fair, voluto a tutti i costi dalla rete via cavo statunitense, all’epoca ancora ignara del fatto che “il cavallo si sarebbe trasformato in un coccodrillo”, dopo esser stato prima assoldato, a 23 anni, da Tina Fey come sceneggiatore di 30 Rock e, poi, aver vestito gli abiti di Troy Barnes in Community. Senza contare, con lo pseudonimo Childish Gambino, creato una notte del 2008 digitando Donald Glover nel generatore di nomi Wu-Tang, l’ascesa come musicista, costruita anche grazie alla capacità di pensare internet come un modo di essere e di abitare un mondo 2.0, nel quale il processo artistico è libero di mandare in frantumi tanto il vecchio regime delle classificazioni, quanto le tradizionali regole produttive.

atlantaIn un crescendo melanconico, con i colori caldi dell’estate della prima stagione che vanno raggelandosi nella cupezza dell’inverno della seconda, Robbin’ Season, come spiegano Darius ed Earn “Natale si avvicina, tutti devono mangiare, o essere mangiati”, la serie di Donald Glover sfalda lo skyline di Atlanta e, con esso, l’immagine della Black Mecca o Hotlanda, come è stata rinominata la città dove Glover è cresciuto, in una famiglia di Testimoni di Geova (l’Apocalisse non a caso continua a far capolino anche nella serie), prima di cercare quella fuga nel mondo dei bianchi dalla quale, attraverso il ritorno a casa del personaggio di Earn, tenta di trovare una qualche forma di espiazione, pur continuando a rimanere incastrato da qualche parte tra due immagini. Una troppo nera per i bianchi e l’altra troppo bianca per i neri.

Nel ribaltamento prospettico di Atlanta, qui persino Justin Bieber è nero, le linee narrative sono tutte tracciate dalla massa black. I neri della upper e middle class, quelli che hanno fondato la mitologia neo-liberare della città, e soprattutto i bianchi non hanno alcuna voce in capitolo, ad eccezione di qualche raro momento, come la cacciata di Darius da un poligono di tiro, perché si può sparare ad una sagoma umana ma non a quella di un cane.

Che Altanta e il suo azzardo da serie che, con le sue linee spezzate e in continua mutazione, preannuncia, come dice Glover, la fine dell’era dello storytelling, sia tutta costruita intorno alla categoria della blackness, uno show insomma, fatto da neri per i neri, nessuna scorciatoia interpretativa a beneficio dei bianchi, è lo stesso creatore della serie a spiegarlo, “the thesis behind the show was to make people feel black. You have to feel it”. “Atlanta” (FX)Donald Glover si aggira nell’Atlanta dello hood, spazio contraddittorio che celebra l’orgoglio nero e, allo stesso tempo, mondo dal quale si cerca di fuggire, dove, insomma, lo slogan keep things real suona sia come atto di resistenza che come accettazione dell’idea di oppressione. Un posto nel quale, quello che è stato salutato, a partire dalle Olimpiadi del ’96, come un rinascimento hip hop, è solo un’illusione distorta. Atlanta non ha proprio nessuna intenzione di raccontare il momento fondativo di una carriera musicale, quella di Paper Boi, nome d’arte di Al, con il suo trap finanziato spacciando erba. Piuttosto, tra uno spinello e l’altro, mentre per le strade della città si aggira una macchina invisibile e Florida Man terrorizza i neri come strategia governativa per mantenere repubblicano il Sunshine State, Glover segue l’andamento banale e allo stesso tempo caotico della vita quotidiana, con le sue bollette da pagare, gli arresti, la violenza, i lavoretti improvvisati, le serate passate in uno strip-club. Una “black comedy about black life”. Eppure la risata lascia sempre in bocca un sapore amaro, lo stesso del folgorante video di This is America, in un gioco labirintico di opposti, dove ci si muove tra riprese aeree e uno sguardo fissato a terra, tra leggerezza e peso, tra sospensione e un senso di caduta.

A voler definire Atlanta, con le sue traiettorie elastiche, dove le linee del reale e dell’assurdo, finiscono per confondersi, non a caso Donald Glover parla della sua serie come una “Twin Peaks with rappers”, con il suo inesorabile sfaldamento delle classificazioni, che passa per il cortocircuito dei generi e per la discontinuità tra gli episodi, e con le sue gag che, quando non sono spinte fino all’eccesso, vengono lasciate galleggiare, come il misterioso uomo della Nutella, senza dar loro alcuna soluzione, si finisce per imbarcarsi in un’impresa che ha il sapore dell’impossibile. Un po’ come il tentativo di tradurre il termine blackness, senza svuotarlo della specificità di una storia, una cultura e un’identità del tutto peculiari.
Si ha quasi l’impressione di trovarsi in una rilettura virata al nero della geografia fuori controllo de Il cattivo tenente di Herzog, dove “qualcosa di inquietante sembra salire dal sottosuolo per affiorare come fosse un alito di vento e scompigliare le carte senza essere visto”. A cavallo del suo coccodrillo, Donald Glover sceglie la molteplicità delle possibili pieghe che fendono la visione, rimanendo in ascolto delle dissonanze emesse dagli spazi interstiziali, inspiegati e inspiegabili, che si aprono tra la blackness come modo d’esistenza e la blackness come fatto che prescinde la persona, tra la blackness come un qualcosa che accade al corpo quando viene visto dall’altro in quanto nero – il senso di minaccia imposto dallo sguardo altrui al corpo di Paper Boi – e la blackness indossata, invece, come affermazione della propria presenza.

Con buona pace di quella tacita regola dello show-business che, non fa eccezione Black Panther, con l’industria hollywoodiana che ancora una volta capitalizza tanto il black come nuovo oggetto di moda, quanto il senso di colpa, restituisce la blackness solo attraverso il filtro dello sguardo dell’uomo bianco, Atlanta non opera solo un ribaltamento prospettico, premiato per la sua audacia con due Emmy Awards, altrettanti Golden Globe e il contratto per una terza stagione, né tantomeno si accontenta di aggiungersi al coro, a partire dai toni appassionati di Spike Lee, dei furiosi atti di denuncia che rivendicano, contro le strategie dell’oppressore, l’orgoglio della propria identità razziale. Piuttosto, con i suoi antieroi falliti, perdenti intrappolati in una linea narrativa che gira in tondo senza andare da nessuna parte, evoca la cultura dello hood, per mostrare come la blackness sia un’idea intraducibile, plurima e dissonante, che non può esser pensata o, ancor più, sperimentata senza produrre una molteplicità di contenuti in contraddizione tra loro.
Insomma, “se le aspettative sono un pallone, Atlanta è un coltello”.

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