Man in the dark, di Fede Alvarez

Alvarez parla di altri mostri d’America, quelli che in guerra tengono prigionieri e seviziano scientificamente i nemici impotenti. Il veterano aguzzino dell’Iraq Stephen Lang in un pamphet d’assalto

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L’intuizione di Sam Raimi, che aveva voluto Fede Alvarez già per il remake del suo La casa, dimostra la propria lunga gittata con questo Man in the dark, sorprendente immersione del giovane asso uruguaiano in un cinema di chirurgica cattiveria politically incorrect mascherata da home invasion rovesciato.
Dove ha imparato questo veterano della guerra in Iraq che ha perso la vista al fronte a padroneggiare l’arte della tortura e della coercizione fisica in maniera così sottilmente infallibile? E’ la domanda che serpeggia esplosiva sotto la pelle “di genere” in ogni immagine del film: ad Alvarez basta trasformare un militare dell’esercito USA in sadico e sovraumano antagonista assetato di sangue e di vendetta, a caccia dei trasgressori che hanno scoperto l’inimmaginabile segreto che l’uomo ha in cantina, per indicarci chiaramente come Man in the dark voglia in realtà parlare di altri mostri d’America, quelli che nelle guerre tengono prigionieri e seviziano scientificamente e sadicamente i loro nemici impotenti: un film su Guantanamo o sull’orrore di Abu Ghraib, incubo interno esplicitamente tirato in causa dall’utilizzo del grosso cane nero rabbioso come arma di difesa, intimidazione ed attacco, proprio come nelle tristemente celebri fotografie dello scandalo militare nel carcere di Baghdad.
Davvero quasi un aggiornamento delle dinamiche del militante People under the stairs di Wes Craven, ambientato in una Detroit di quartieri abbandonati e abitazioni in decadimento come dopo un bombardamento, sorta di Kabul postindustriale nel cuore dell’America su cui Alvarez plana in un incipit che ricorda quello dell’altrettanto esplosivo Dawn of the dead di Zack Snyder.

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Se il regista mette in scena una notevole abilità nella prima parte a mantenere un’insostenibile tensione con elementi di cinema puro, giocando con i silenzi, i respiri ed il buio, nella sezione centrale lo scontro tra un mastodontico Stephen Lang e la musa di Alvarez, Jane Levy, assume i contorni decisamente eighties della sfida primordiale contro una creatura animalesca in grado di percepire qualunque movimento dei corpi o spostamento di aria.
Peccato poi che la trasformazione della bionda Rocky in scream queen guerriera nel finale sposti un po’ troppo l’asse nei territori dell’horror videoludico alla Resident Evil, ma a bilanciare nuovamente l’assetto non allineato dell’opera ci pensa il capovolgimento dell’epilogo, che sembra sancire il patto con il Male e il prezzo della perdita dell’innocenza definitiva della Nazione che si volta dall’altra parte.

Pazzesco pamphlet portato avanti senza esitazioni che non risparmia trovate di spietata truculenza in grado di evocare incubi politici del presente reazionario (la disturbante, folle sequenza dell’inseminazione artificiale), Man in the dark conferma in Alvarez uno dei nomi più dinamitardi della nuova generazione di cineasti dell’orrore, qui capace di aggirarsi per le stanze e i corridoi di una casa dai confini mutevoli e continuamente ridefiniti come insegnato in tempi recenti proprio da James Wan e Scott Derrickson.

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