Maneggiare con cura. Francesco Clerici al LACENO D’ORO 42

Il restauro di una macchina diventa il pretesto per traslare gli oggetti dal loro uso pratico ad uno invece tecnologico. Fuori Concorso al Laceno D’Oro 42, seguito da un incontro con l’autore

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C’è una frase di Gillo Dorfles, protagonista di un corto diretto dallo stesso Francesco Clerici e proiettato in questa edizione del Laceno D’Oro prima del lungometraggio Maneggiare con cura, in cui il filosofo dice: “Un bicchiere d’acqua ha senso solo se si ha sete”. Una sentenza che da sola riassume tutto il senso dell’operazione del film che lo segue dove a essere protagonista è proprio un oggetto oggi “inutile” come un vecchio acceleratore di particelle in via di restauro al Museo della Scienza e della Tecnologia di Milano, dov’è correntemente esposto. Evidentemente questo non può essere più usato come nel passato, dunque la sua stessa esistenza viene traslata nel presente nell’essere una forma di studio antropologica. Per tutta la sua durata, infatti, Maneggiare con cura segue la vita del restauro della macchina, dalla prima fase di trasporto, fino all’ultima dell’apertura al pubblico quando finalmente l’oggetto riacquista un suo senso, nuovo e diverso dal precedente ma comunque vitale. E’ quindi il fattore umano a determinare la (non) funzionalità di un qualcosa e ce lo fanno intuire tutte le persone che ci lavorano che ad un certo punto hanno l’impressione di avere a che fare con una mummia di cui si deve ancora capire bene l’aspetto originale. Tutte queste sono riflessioni a posteriori sul film che, come il precedente di Clerici Il Gesto delle Mani, si tinge di un’affascinate cura dell’atto pratico apparentemente scissa da una qualsiasi speculazione filosofica. Ma dalle stesse parole dell’autore si intuisce come è in realtà centrale, e programmatica, questa attenzione riservata prima all’uomo, poi alla macchina: “L’oggetto a me in realtà non interessa. Lo trovo privo di senso senza umanità. E’ un pretesto per il mio modo di lavorare dove ne scopro il significato solo nel momento in cui le persone ci dedicano passione.”.

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E’ da una parte anomalo, ma sicuramente uno degli aspetti più interessanti, scoprire come questo lavoro di cui parla sia applicato ad un oggetto scientifico. Siamo abituati a riconoscere le opere d’arte come testimonianze del nostro passato e quindi oggetto di studio e restauro, ma poche volte ci si interroga di quanto la costruzione stessa della tecnologia possa dire tanto sia degli uomini che ci si sono dedicati sia del tempo in cui è stata ideata. Filmare oggi il lavoro di restauro su una macchina significa indagare due volte l’atto pratico: quello funzionale del passato e quello di indagine nel presente.Anche la tecnologia contemporanea può essere studiata in chiave antropologica” ha infatti sottolineato Clerici. “Si è evoluta, è cambiata e cambierà ancora. Quindi in un certo senso è già il passato, è già vecchia. Per questo gli oggetti, le macchine, ed anche il cinema, ad un certo punto verranno tutti studiati in questa dimensione antropologica.”.

Ma come far iniziare questo processo? Si studia il cinema in correlazione con l’uomo quasi esclusivamente partendo dal contenuto filmico, mai da cosa ha permesso l’immagine. Così come tutte le produzioni oggettuali che ci vengono date dalla tecnologia. E’ un approccio ancora sconosciuto a cui Clerici tenta di dare una risposta seguendo minuziosamente non solo lo studio dei singoli sull’oggetto ma soprattutto questo contestualizzato in un lavoro più grande di gruppo: “Loro sono gli investigatori privati del tempo che hanno il compito, tutti insieme, di capire cosa sia successo nel passato su una superficie. Qualsiasi cosa racconta una storia, una ruggine, un graffio, una macchia di caffè ancora di più perché implica un incidente umano.”. Torna, di nuovo, la parola umano come se per parlarne oggi si debba guardare prima di tutto alla macchina.

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