MANGA/ANIME – I ragazzi del Mundial

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Le partite in Brasile sono terminate, ma restiamo ancora in ambito calcistico con la serie animata realizzata nel 1994, quando fu l'America a ospitare la competizione: una co-produzione fra Italia e Giappone per raccontare la storia dello sport più popolare come metafora della vita

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I ragazzi del Mundial logoNon è famosa come Arrivano i Superboys o Holly e Benji, ma sulla carta I ragazzi del Mundial è la serie animata più ambiziosa che il Giappone abbia mai dedicato al calcio: non si tratta, infatti, di raccontare soltanto le prodezze di giovani assi “locali” del pallone, quanto di imprimere nella Storia la grandezza dello sport, attraverso il resoconto del suo momento più alto, il Campionato del Mondo. Siamo nel 1994 e la Coppa è ospitata dagli Stati Uniti, paese di per sé poco attratto dal “soccer” e che la FIFA spera in questo modo di coinvolgere in quella che ormai è una febbre globale: il titolo giapponese della serie, non a caso è proprio “Sakka Fiba”, Soccer Fever. Così, lo spunto offerto dall'idea di dover raccontare il calcio a chi non lo conosce, diventa il pretesto per una coproduzione fra la nostra Rai e l'emittente giapponese TMS: i 52 episodi che vengono prodotti hanno un chiaro scopo “didattico”, e il ruolo di creatori grafici è affidato ai fratelli Marco e Gi Pagot, mentre alla regia troviamo Shinobu Oda.

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La storia prende le mosse dal desiderio del giornalista americano Jim Hackerman di raccontare la storia dei Mondiali di Calcio ai suoi concittadini: l'uomo giusto per l'impresa è Brian Thompson, ultraottantenne collega inglese che ha seguito la competizione sin dalla prima Coppa Rimet del 1930. Il racconto segue così una struttura episodica in cui ogni puntata corrisponde a un articolo scritto da Thompson. Si segue naturalmente la linearità temporale, ma la storia dimostra progressivamente di volersi aprire a uno schema meno rigido di quanto l'idea non farebbe supporre: si inseriscono perciò racconti di partite amichevoli tenute fra un campionato e l'altro, puntate monografiche su campioni dimenticati come il portiere spagnolo Zamora o il brasiliano Garrincha, senza dimenticare i difficili contesti storici in cui si svolgono le varie competizioni. Il tono è chiaramente semplice e la narrazione lineare, orientata più che altro al trionfo di un'idea pulita e positiva dello sport, ma fortunatamente gli autori non nascondono le difficoltà portate dalla Seconda Guerra Mondiale (dove la moglie di Thompson muore sotto i bombardamenti) o la rivoluzione ungherese del 1956 in cui si ritrovò suo malgrado coinvolta la nazionale del campione Ferenc Puskás, squalificata perché rifiutatasi di rientrare in patria mentre erano in corso le repressioni sovietiche.

 

Brian Thompson e famigliaPiù direttamente ascrivibile a una narrazione di tipo occidentale (e forse all'influenza dei Pagot) ci appare invece la cornice in cui vediamo Thompson allenare i nipoti insieme al cane tuttofare Dick, curiosamente molto simile al Nana del disneyano Le avventure di Peter Pan, sia nell'aspetto che nelle attitudini “umane” e nella capacità di rendersi utile durante le trasferte o nella consegna degli articoli. Gli autori cercano in questo modo di rompere la mono-dimensionalità del resoconto sportivo, assicurando allo stesso tempo un elemento di quotidianità e di vita vissuta al racconto della Storia: in tal modo, la vicenda si articola non solo in due tempi (il passato e il presente), ma riesce anche a mostrare l'integrazione fra lo sport come grande esperienza condivisa e gli insegnamenti reali che chiunque può trarre nel suo piccolo dalla competizione. In tal senso, i momenti più ispirati sono proprio quelli che vedono Thompson alle prese con problematiche personali che si riflettono nelle difficoltà che gli atleti provano sul campo da gioco. Il senso dell'operazione diventa così molto chiaro: mostrare come il calcio non sia soltanto un qualcosa di relegato alla Storia, e dunque lontano e inavvicinabile, ma un'espressione delle volontà umane di confrontarsi gli uni con gli altri e maturare così tutte quelle esperienze che arricchiscono e definiscono un'esistenza. Lo sport come metafora della vita, insomma, con personaggi che si appassionano e allo stesso tempo amano, si preoccupano, subiscono brutte esperienze e vivono emozioni piene. In questo senso è interessante soprattutto il tono prediletto dagli autori, spesso connotato da una velata malinconia ma mai passatista o adagiato sul rimpianto blandamente nostalgico.

 

I campioni in festaDal versante prettamente tecnico, invece, la serie si pone nettamente in antitesi rispetto ai già citati capostipiti del calcio animato: solo la sigla di testa mostra i campioni prodigarsi in azioni spettacolari, per il resto si persegue il realismo della ricostruzione, con uno sport molto “fisico” e lontano dalle acrobazie di un Holly e Benji. Sebbene non si cerchi una reale corrispondenza tra il vero aspetto dei campioni e la loro versione animata (forse per problemi di diritti), il calcio si fa comunque disciplina molto concreta, ricondotta alla materialità delle azioni e dei suoi elementi: in questo aiuta anche un design sì morbido e vivace nell'aspetto e nelle tinte, ma comunque capace di restituire la pesantezza dei corpi. Certo, il rischio di frenare le possibilità spettacolari del racconto è concreto (si pensi a come viene reso stancamente lo storico gol di Pelé alla Svezia del 1958, solo per citare un esempio), e non aiuta nemmeno un ritmo poco serrato, che rende il racconto spesso statico e frena molte potenzialità. L'intento didattico resta senz'altro quello che rende la visione più interessante, per il piacere di assaporare più o meno in diretta gli eventi che hanno fatto la storia di uno sport così amato.

 

Trasmessa per la prima volta proprio nel 1994, la serie è visibile in streaming gratuito e legale sul sito della Rai, seppur monca delle ultime puntate dedicate al Mondiale del 1990 per ragioni a noi ignote.

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