MILANO 23 – Cronache dall’infanzia

Chroniques d’une cour de récré

Altri tre film hanno centrato l’attenzione sul mondo dell’infanzia: lo sguardo malinconico ed affettuoso di Brahim Fritah sulla propria infanzia in Chroniques d’une cour de récré, le iperboliche avventure di un neofita dell’ecologia nell’iraniano The Orange Suite di Dariush Mehrjui e il teatrale cortometraggio It’s a Beautiful Day dell’indonesiano Tonny Trimarsanto

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Chroniques d’une cour de récréLa casuale ricorrenza di temi, dentro un variegato e composito programma di un festival, costituisce un ulteriore elemento di riflessione e un valore aggiunto rispetto alla visione di opere la cui differenza rispetto al mercato consueto è già, di per sé, valore autonomo e motivo di interesse.

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Dopo Infancia clandestina di Benjamin Ávila che ha aperto il festival, altri tre film hanno centrato la loro attenzione più o meno direttamente sul mondo dell’infanzia.

Un lavoro diretto ed esplicito sul tema, è stato quello del parigino, di origini marocchine, Brahim Fritah che esordisce nel lungometraggio con questo suo Chroniques d’une cour de récré. Il film, che fa parte della selezione principale dei lungometraggi, getta uno sguardo amorevole e leggermente malinconico sui propri ricordi d’infanzia e prima adolescenza. La scuola, gli amici, la famiglia, i giochi, gli scherzi, un primo timido affacciarsi dei sentimenti d’amore e le prime avvisaglie di una crisi del lavoro che colpisce la comunità di cui il piccolo Brahim fa parte. Fritah assolve con impegno il suo compito costruendo un’ambientazione lontana dalla città, quasi un altro luogo, di quelli che esistono solo nei ricordi. La strategica lontananza dalla vicina metropoli ne fa ambientazione lontana da qualsiasi implicazione sociologica che possa falsare il ricordo e deformare il racconto. È proprio dentro questo piccolo mondo, fatto di problemi che si affacciano e che possono mutare la vita delle persone e di figure indispensabili che cominciano a modellare i percorsi del piccolo protagonista, che si sviluppa la sua immaginazione, prende forma la sua personalità. Forse, però, è proprio questa dimensione così chiusa a costituire un limite dell’operazione. Lo sguardo di Fritah si ferma alla cronaca del proprio cortile, i propri ricordi sono esclusivamente un affettuoso diario della sua vita e non hanno la forza di estendersi ad una riflessione più ampia e complessiva. Il mondo di Brahim sembra iniziare e finire dentro queste coordinate personali ed esclusive. Ciò che va segnalato è il complementare valore che questo film assume all’occhio dello spettatore rispetto a quello di Ávila dove le differenze di impianto si trasformano in altrettanti motivi di interesse poiché raccontano e traducono la ricchezza che sta dentro la diversità di forme narrative.

L’anomalo film iraniano The Orange Suite è una commedia, a tratti farsesca in cui il protagonista,The orange suite che di mestiere fa il fotoreporter, si appassiona al Feng Shui, tanto da diventare un paladino dell’ecologia e della raccolta dei rifiuti. La sua inclinazione mette in crisi il suo matrimonio e la moglie, genio della matematica, vergognandosi un poco della nuova condizione del marito che fa lo spazzino, vorrebbe portare con se il figlio in Norvegia dove insegna in una prestigiosa università.

Affidato alla regia del veterano Dariush Mehrjuj e presentato nella sezione ragazzi di Films that feed, il film è lontano dai temi e dall’originale realismo che il cinema iraniano pratica da anni. Anche qui un ragazzino che, senza essere il protagonista assoluto della vicenda, diventa, l’oggetto della contesa tra i genitori in odore di divorzio. Giocato su un registro iperbolico e un po’ gravato da una ricercata leggerezza, il film alterna momenti di piacevole concordanza tra la narrazione e la sua messa in scena ad altri in cui il racconto, il dialogo e con essi tutto l’impianto del film, sembra impantanarsi e immobilizzarsi. Leila Hatami, già conosciuta in Una separazione, sembra essersi abituata ai ruoli di donna indipendente sempre pronta a rompere un legame, a giocarsi la carta del divorzio. Qui la sua figura diventa prototipo di un Iran in mutamento, lontano da qualsiasi convenzione dettata da principi religiosi. La figura maschile, nell’anomalia che contraddistingue l’intera operazione, è un personaggio casalingo al quale il piccolo Shahabi è fortemente legato. Su tutto aleggia un’aura di infantile visione del mondo, di sincera semplicità, di possibilità e di occasioni che vegono offerte ai protagonisti per cambiare la propria vita. L’ecologia sembra essere solo un pretesto per un racconto che vuole gettare un occhio benevolo sul futuro del paese, o forse una metafora che allude ad una pulizia e ad un cambiamento che sembra tanto assomigliare a quella che avviene nel film sia nell’appartamento dove vive la coppia, ma soprattutto nelle loro vite radicalmente trasformate dalla originale vicenda.

It's a beautiful dayÈ ancora l’infanzia e la sua fervida immaginazione ad essere protagonista del cortometraggio indonesiano It’s a Beautiful Day di Tonny Trimarsanto nella stessa sezione del film iraniano. Il bambino protagonista di questo breve film è un cantastorie che racconta alla comunità raccolta davanti allo schermo scorrevole dei disegni che accompagnano la narrazione, dell’acqua e dei pericoli che la minacciano. Il bambino e i variopinti disegni della tradizione locale (wayang beber) offrono uno spettacolo di scarna e affascinante semplicità che trova il favore degli spettatori e bene si raccorda ad un protagonismo infantile che sembra dominare queste prime battute del festival.

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