Milano in the Cage – The Movie, di Fabio Bastianello

L’opera seconda del regista meneghino racconta la vera storia del fighter Alberto Lato: imperfetto e coraggioso mix tra mockumentary sportivo e noir metropolitano in una Milano che non si beve più

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C’è un sottobosco indipendente nel panorama cinematografico italiano che sembra aver trovato una propria identità concettuale, se non formale, nell’assimilazione e nella proposizione di storie e di traiettorie che denunciano il proprio amore – e il proprio debito formativo – per un cinema di genere che spazia dal noir metropolitano al poliziesco da banlieue, dal mockumentary al cinéma vérité, magari sfrondato da motivazioni ideologiche tout court, più o meno animato da ambizioni stilistiche e tendente, piuttosto, al recupero di una dimensione da docu-fiction aperta alle potenzialità espressive della serialità televisiva e alle suggestioni atmosferiche di certo cinema asiatico e sudamericano. Ma anche memore – per fortuna, aggiungiamo – della lezione tutta italiana della “trilogia suburbana” del compianto Claudio Caligari (Amore Tossico, 1983; L’Odore della Notte, 1998; Non Essere Cattivo, 2015): da Sbirri di Roberto Burchielli (2009) a A.C.A.B. – All Cops Are Bastards di Stefano Sollima (2012); da La Grande Rabbia di Claudio Fragasso (2016) a Falchi di Tony D’Angelo (2017). Milano in the Cage – The Movie si iscrive in questo filone, unendo alla rappresentazione realistica del degrado urbano, del disagio sociale e degli antieroi sconfitti in cerca di redenzione un messaggio pedagogico e di speranza legato all’attività agonistica e allo sport come possibilità di rivalsa personale e di riscatto sociale, collocandosi sulla stessa scia del contemporaneo Goodbye Darling – I’m Off to Fight di Simone Manetti (2016).

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untitled2La pellicola – presentata in anteprima il 12 maggio 2016 al 69 Festival di Cannes (dove il film ha ricevuto un premio dalla W.T.K.A., la World Traditional Karate Association) “ospite” dell’Italian Pavilion dell’Istituto Luce – Cinecittà e poi al Venice Production Bridge della 73a Mostra Internazionale di Arte Cinematografica di Venezia – è il secondo lungometraggio del quarantaseienne regista, produttore, montatore e grafico milanese di origini friulane Fabio Bastianello, allievo di Ermanno Olmi alla scuola “IpotesICinema” (nel 1990 ha scritto un soggetto dal titolo Cristina, divenuto sceneggiatura dopo gli apprezzamenti espressi dai registi Ermanno Olmi e Tony De Gregorio, e nel 2014 ha fondato la casa di produzione Overall Pictures) e segue di sei anni la sua opera prima, Secondo Tempo (2010), spaccato iperrealista di una curva ultras, girato in un unico piano sequenza di 105 minuti presso lo “Stadio Olimpico” di Torino alla presenza di un centinaio di tifosi della squadra granata e vincitore di numerosi premi (“miglior lungometraggio” e PremioNino d’Oro” al Festival del Cinema della Ciociaria “Nino Manfredi”, finalista allo Sport Movie & Television – Milano International F.I.C.T.S. Festival e PremioNuove Forme di Comunicazione” all’Asti Film Festival). Il progetto è stato realizzato in collaborazione con la Federazione Internazionale di Sport da Combattimento e con la Born to Fight di Claudio Alberton e Boris Viale, organizzatori e precursori del più importante evento italiano di Mixed Martial Arts: il Milano in the Cage”, per l’appunto.

Bastianello porta avanti la sua personale esplorazione di mondi che si segmentano e stratificano tra una superficie apparentemente normale, solare, patinata e raddoppiata dai media ed un livello underground notturno, marcio, degradato, dimenticato. Una ricerca dell’insieme che ricomponga antinomie ed ossimori altrimenti insanabili e che, almeno nelle intenzioni, vorrebbe astenersi da facili giudizi morali e da un cinema di impegno e di denuncia socio-politica. Questi contesti borderline servono al regista per raccontare, proprio registrare, in modo iperrealistico la vita a partire dalle sue radici, quelle che ti tengono prigioniero di una periferia e di una “spirale del disagio”. Un universo “sporco” da catturare attraverso inquadrature ed immagini altrettanto rudi, con un utilizzo esasperato della macchina a mano e l’impiego di attori non professionisti, spesso protagonisti della storia che si intende raccontare e che il regista addestra personalmente facendo loro vivere il ruolo.

La storia di Al

milano1-1000x600Alberto Lato, detto Al, è un uomo di 36 anni, né giovane né vecchio, e di certo non comune. Vive in una Milano che è sconosciuta ai più, una città vittima di una lenta agonia economica tra degrado e povertà. Al non si è risparmiato, nella vita ha fatto il boxeur, è esperto di arti marziali, ha lavorato come guardia del corpo e ha fatto il buttafuori. Abbandonato dalla compagna – una spogliarellista e ballerina di lap-dance riuscita ad affrancarsi dallo squallore e dalla precarietà della propria vita grazie anche ad una relazione sentimentale con un ricco signore della “Milano bene” – Al è padre di un bambino che può vedere un solo giorno alla settimana in compagnia di un’assistente sociale. L’uomo si è compromesso con lo spaccio di droga, il mercato della prostituzione e il controllo delle attività illegali da parte della malavita calabrese: una realtà di clandestinità e di violenza che è diventata la sua dimensione. I pochissimi amici sinceri che ha sono il “vecchio” coach della palestra in cui si allenava e uno spiantato tossicodipendente alle prese con debiti ed affari loschi. In questa Milano oscura e pericolosa, tuttavia, ha ancora la possibilità di contare qualcosa e di sentirsi rispettato. Capace di guadagnare mille euro in un giorno e bruciarseli in una notte, Al è intimamente preso da un inesorabile senso di progressiva alienazione e di incapacità di essere padre. La disciplina estrema delle Arti Marziali Miste (MMA) rappresenta per lui una possibile via di fuga da questa gabbia. L’occasione per riscattarsi arriva con la finale del torneo “Milano in the Cage”, un incontro realmente combattuto per il film e il cui risultato finale si scoprirà solo al suono del gong.

Regista e protagonista della storia si sono conosciuti al ritorno di Alberto dalla Thailandia (dove era rimasto per un anno). Il soggiorno italiano è durato poco, Alberto è ripartito per il Brasile per fare la guardia del corpo e ha girato il mondo per circa un altro anno. Dai suoi racconti e dalle sue esperienze di vita è nata l’idea di girare il film. Il regista si è proposto di raccontare “una Milano notturna, una città che non si conosce. Quella cresciuta all’ombra dei grattacieli che riempiono la scena e nascondono il vuoto che c’è dietro. Sono andato tra le case occupate dove vige la prostituzione e lo spaccio di droga, seguendo i percorsi di Al, ma anche nella città regolare, sebbene io abbia sempre considerato il nuovo skyline di Milano come una sorta di panorama western. Milano è una città che rimane iperattiva anche nei suoi aspetti più negativi di degrado e povertà. La mia è una Gomorra alla milanese. In questo film ho lasciato spesso parlare e gridare la strada, anche nella scelta di alcuni personaggi che interpretano loro stessi, lasciando vivere la vita nella sua interessante imperfezione”. E la storia di Al offriva lo spunto giusto per affrontare svariati temi sociali e per guardare sotto la superficie della metropoli meneghina, sbandierato simbolo italiano di moda, industria e modernità, passata attraverso il benessere e il rampantismo dei ruggenti anni Ottanta dell’egemonia socialista (“una città che rinasce ogni mattina e pulsa come un cuore: Milano è positiva, ottimista, efficiente; Milano è da vivere, sognare e godere” fino al celeberrimo claim della “Milano da bere”), la drammatica stagione di Tangentopoli e la recente vetrina internazionale dell’Expo,  con annessi scandali e polemiche. Una città che sembra detenere anche quei primati assai poco lusinghieri che innervano e, paradossalmente, vitalizzano gli aspetti più truci e rivoltanti della vita metropolitana sotterranea, se è vero – come sostiene un amico di Al – che “dove lo trovi un altro posto come Milano con tutti questi sfigati che spendono un sacco di soldi ogni sera per strafarsi?”.

Una “Milano da pere”

milano-in-the-cageSe da un lato questo spaccato nudo e crudo di violenza e degrado con protagonisti presi dalla strada fa venire in mente Gomorra di Matteo Garrone (2008) e Suburra di Stefano Sollima (2015), dall’altro il percorso iniziatico della lotta e dello scontro fisico su un ring per tirarsi fuori dalle risse e dai pestaggi di una quotidianità irredimibile non può non richiamare alla memoria la saga di Rocky Balboa e pellicole come Never Back Down – Mai Arrendersi di Jeff Wadlow (2008), Fighting di Dito Montiel (2009), Warrior di Gavin O’Connor (2011), i più recenti Southpaw – L’Ultima Sfida di Antoine Fuqua (2015) e Mais Forte que o Mundo – A História de José Aldo del brasiliano Alfonso Poyart (2016) e le produzioni low budget provenienti da Hong Kong. L’idea di affidare il racconto al viso, alle parole e alla gestualità di colui che quel racconto lo ha vissuto sulla propria pelle è indubbiamente efficace e costituisce, al tempo stesso, la sfida più innovativa e rischiosa di tutta l’operazione. Alberto Lato si immerge nell’interpretazione di se stesso con spirito encomiabile e con un approccio da attore consumato arrivando, come egli stesso ha dichiarato, “a comportarmi come una volta, scendendo nuovamente a compromessi, tornando ad esempio a non dover ridere per un anno intero! Ho dovuto mollare tutto, fidanzata e lavoro, calandomi completamente nel personaggio e tornare al mio vecchio modus vivendi: bere, uscire di notte e ricominciare a vivere in una certa maniera per tornare ad essere il me stesso di tanti anni fa, quello che appunto dovevo rappresentare nel film. Mi sono dovuto rimettere in forma, cambiare il mio peso di 20 kg ed essere davvero un fighter, con allenamenti quotidiani e moltissima preparazione atletica. Essere un fighter ma non un vincente, un antieroe, negativo alcune volte, ma vero. Non un eroe che va a vincere, ma un antieroe che con lo sport si tira fuori da molte situazioni e continua a combattere nella vita di tutti i giorni. Interpretare me stesso non è stato per nulla facile, ho avuto anche problemi di depressione alla fine delle riprese”. Al fine di preservare la veridicità e il realismo della storia, il casting è stato volutamente effettuato affiancando ad attori professionisti, impegnati in ruoli minori o marginali, persone prese dalla strada e chiamate ad interpretare se stesse, tra realtà e finzione (come Claudio Alberton, istruttore di MMA, e Max Greco, campione mondiale di kickboxing e full contact).

Certo, a pagarne le conseguenze da un punto di vista squisitamente cinematografico sono la dizione piuttosto meccanica e il limitatissimo spettro di soluzioni espressive, ciò che fa funzionare soprattutto le scene di lotta e i silenzi che accompagnano i momenti emotivamente più intensi della pellicola, come quando Al spia a distanza il figlioletto che va a scuola. Nei dialoghi si avverte lo sforzo apprezzabile di riprodurre, anche foneticamente, lo slang da bassifondi attraverso un linguaggio infarcito di inflessioni dialettali ed espressioni gergali legate al mondo dello spaccio e della malavita di quartiere, ma nelle quasi due ore di girato non mancano momenti deboli e qualche ingenuità nella sceneggiatura, a testimonianza di quanto sia difficile fondere in uno stesso prodotto fiction urbana e ambizione cinematografica. L’utilizzo di espedienti tecnici come una martellante handycam che segue l’incedere dei protagonisti, insinuandosi nello squallore dei loro festini a base di sesso e pere, e di piani sequenza – o long take – tanto cari al regista, conferiscono alla narrazione uno sviluppo prevalentemente orizzontale, funzionale alla poetica della “giungla metropolitana” che si vuole descrivere, ma non sempre riescono ad imprimere e garantire quella continuità di ritmo che ci si aspetterebbe da un simile soggetto, una vita sregolata di eccessi ed accessi (di rabbia, di violenza, di depressione). Eppure, questa incostanza nello sviluppo dell’azione scenica finisce paradossalmente per farci cogliere più pienamente quelle sensazioni da riflesso intorpidito e da movimento rallentato generate dal consumo prolungato di eroina, oltre che introiettare nello spettatore un sentimento di tedio esistenziale e di squallida “routine del marcio”. È la roboante ed adrenalinica colonna sonora, con una trentina di tracce accuratamente selezionate, ad ovviare a qualche passaggio a vuoto dello script, con una miscela esplosiva che va dalle sonorità ruvide e “grasse” dei friulani Fake Idols ai raffinati arrangiamenti rock dei The Panicles, dal metal prog degli Overunit Machine alla voce inconfondibile dello speaker radiofonico e vocalist Dr. Feelx (scomparso a gennaio scorso), dalle contaminazioni tra pop e rock alternativo di Omar Pedrini (che compare in un cameo nella veste di un barbone “filosofo”) al rap rabbioso di Sopravvissuto, ultimo disco del rapper romano di origine zairese-tunisina Ion aka Real Deal.

Redemption Gong

Milano in the Cage – The Movie è un’indagine coraggiosa e sincera che utilizza il linguaggio del documentario e sfrutta le potenzialità, anche didattiche, di una biografia difficile per intrattenere e, insieme, far riflettere, senza indulgere in una rappresentazione fine a se stessa della violenza e nell’apologia dell’antieroe che non si arrende e che dalla dannazione eterna delle bolge infernali tenta quanto meno di risalire verso un purgatorio ancora possibile ed esperibile. È un film imperfetto come i suoi protagonisti, tanto sperimentale quanto, per lunghi tratti, poco originale, forse velleitario e confuso nella sua avidità di mostrare senza, almeno in apparenza, sublimare, giudicare ed educare, ma indubbiamente vibrante nella sua genuinità e, appunto, sincero. È anche una riflessione personale del regista sull’importanza di distinguere concetti come lotta e guerra, scontro e confronto, ring e gabbia, laddove la rigida disciplina delle arti marziali – non illuda lo slogan “senza regole” – in realtà “nobilita” un presunto impulso violento e lo trasforma da potenziale atto di cronaca nera in atto di resistenza, di sacrificio, di scelta di vita. È una pellicola che si è presa tutto il tempo necessario, come spiega il regista: “Ho girato per un anno e mezzo, perché volevo che la storia andasse oltre le stagioni”. Come nelle grezze creazioni di Jean Dubuffet – che teorizzava l’arte nei lavori generati dalla solitudine e dagli impulsi creativi puri ed autentici – o come nei graffiti metropolitani di Jean-Michel Basquiat – che nell’elevazione di questo linguaggio della strada allo status di arte da esporre nei musei vedeva la sola, possibile via per il riscatto sociale – il film di Bastianello si muove su un percorso accidentato, tra venature iperrealistiche, liturgia del marcio e fattualità documentaria, finanche gestuale, dove anche la risoluzione cromatica della fotografia e lo spettro luminoso sembrano fermarsi sulla superficie specchiata e levigata degli edifici più appariscenti e de-saturarsi a mano a mano che scivolano verso il suolo, affumicandosi e annerendosi a contatto con un’umanità straccia e sordida.

Gli ultimi venti minuti sono dedicati interamente al combattimento nudo e crudo, in presa diretta, svoltosi realmente tra Al e il suo sfidante, Roberto “il Cinghiale” Nosenzo – biker degli Hells Angels – sul ring del “Milano in the Cage”. Eccola, la gabbia. Una gabbia ottagonale, proprio quanti sono i bastioni storici della città di Milano, dentro la quale si svolge “senza copione” la lotta conclusiva: Al vs. Roberto, ma soprattutto Al contro il suo stesso passato, in un finale tutto da scrivere e in cui poco importa vincere o perdere.

Regia: Fabio Bastianello

Interpreti: Alberto Lato, Cristian Stelluti, Antonella Salvucci, Federica Strozza, Claudio Alberton, Max Greco, Roberto Nosenzo, Alex Celotto, Lorenzo Bastianello, Antonio Cagnazzo, Carlo Crini, Emiliano Ronchi, Omar Pedrini

Origine: Italia, 2017

Distribuzione: Overall Pictures

Durata: 113’

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