“Miral”, di Julian Schnabel

Miral Julian Schnabel
Quello di Schnabel è uno sguardo del tutto alieno, quasi di un extraterrestre che, catapultato in un mondo assurdo e folle, cerca di carpirne, comunque, gli aspetti forti delle emozioni e i pochi brandelli di lucidità. E, con tutta la forza d’impatto dell’immaginario cinematografico dominante, Schnabel racconta qualcosa di meraviglioso dentro un “mondo d’orrore”, un piccolo giardino dell’Eden dentro il campo di concentramento della Palestina del 900. Quasi una cartolina d’impegno per il Presidente Obama…
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Miral Julian SchnabelOk lo diciamo subito: Miral è il classico film hollywoodiano che getta uno sguardo – tra il sorpreso, incantato, spaventato – su realtà ormai secolari, dove lo sguardo politico si coccola della ricchezza della produzione, della magia della luce della fotografia “doc” (Eric Gautier – Clean, Into the Wild, Gli amori folli), dell’aura esibita del cineasta/artista che, letteralmente, si commuove di fronte a quanto sta mostrando/raccontando.

 Quindi ci stanno tutti quegli stereotipi “politicamente corretti” che tanto fanno arrabbiare noi europei “colti politicamente”, con in più il fatto che il film è tratto dal romanzo, “La strada dei fiori di Miral”, scritto da una giornalista palestinese ormai affermata anchor woman nelle tv italiane, Rula Jebreal.

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Quindi questo film è inutile e brutto – come sostengono gran parte dei redattori di Sentieri selvaggi a Venezia 67 ? Puo’ darsi. Ma qui vogliamo provare a rovesciare lo sguardo critico, come in un impianto di riciclaggio etico/linguistico della visione.

Miral è intanto una importante e doverosa cartolina che Hollywood invia al Presidente Obama, impegnato nell’ennesimo tentativo americano di trovare una soluzione al dramma istraeliano-palestinese. Forse ricordando che fu un presidente democratico (da tutti definito il miglior ex presidente degli Stati Uniti) come Jimmy Carter, a far firmare gli accordi di Camp David del 1978 che sancirono la fine del conflitto Israele-Egitto, e che fu Bill Clinton a sancire gli accordi di Oslo del 1994, citati nel film, che di fatto costitutiscono l’ultima base “legale” (ma mai rispettata)  tra Israele e la Palestina. Alla grande speranza nera americana, il presidente Obama, è affidata dunque una grande prova di abilità, la messa alla prova del suo ruolo storico, non solo negli USA.

Però Miral è, anche, un atto d’amore privato, quello tra Julian Schnabel e la sua compagna Rula Jebreal, e per quanto a volte le dichiarazioni d’amore nel cinema esibite possano infastidirci (ricordate Wim Wenders degli anni 80/90?), resta sempre un gran buon motivo per fare cinema. Ma soprattutto Miral è un film che vuole raccontare anche a coloro – in America soprattutto, dove le lobby ebraiche hanno una grande influenza politica, su Hollywood soprattutto – che in questi anni si sono coperti gli occhi con gli orrori del terrorismo arabo al punto di non riuscire ad accettare l’idea che ci fossero “anche” (soprattutto) gli altri orrori del campo israeliano. Certo in Europa questo lo sappiamo e vediamo da tempo, ma in quale film americano abbiamo mai visto i soldati israeliani massacrare e torturare i palestinesi? Qualcuno lo ricorda? (nel caso usate i commenti per aiutare la nostra memoria labile…a parte l’Oliver Stone, ovviamente, ma quello è un cineasta cui sfugge la verità da sempre, quindi politicamente poco credibile).

Il film di Schnabel, quasi “didatticamente”, abbraccia un periodo cruciale della storia, quello che va dalla nascita dello Stato di Israele (1948), fino agli accordi di Oslo del 1994, celebrando la storia (vera) di Hind Husseini (Hiam Abbass, già vista ne L’ospite inatteso), che raccolse i bambini orfani palestinesi fondando la Scuola Al-Tifl Al-Arabi, che ancora eiste, e dove ha vissuto da bambina anche Rula Jebreal. Tre donne, tre generazioni: una forte e decisa a resistere contro il conflitto che devasta il paese (i paesi). Una seconda stravolta dal bere che finisce suicida nel mare, e una terza che grazie a Hind riesce a vivere un’infanzia protetta ma che una volta adolescente scopre la ribellione dell’Intifada di cui si appassiona con la stessa forza con cui si innamora di un militante politico, Hani (Omar Metwally, visto in Munich).  Miral si trova stretta nel conflitto ormai generazionale, di un popolo vissuto dentro l’immaginario dell’occupazione, e che usa le pietre come strategia primordiale e disperata di liberazione – mentre dall’altra parte Hind cerca di preservare questo piccolo Paradiso per i bambini palestinesi e il padre Jamal (Alexander Siddig) di salvarla da storie e situazioni che ha gia visto troppe volte finire drammaticamente.

Certo nel film non ci sta la lucida follia flemmatica di un Soulemain del magnifico Il tempo che ci rimane, ma anche perché quello di Schnabel è uno sgaurdo del tutto alieno, quasi di un extraterrestre che, catapultato in un modo assurdo e folle, cerca di carpirne, comunque, gli aspetti forti delle emozioni e i pochi brandelli di lucidità. Ma, utilizzando tutta la forza d’impatto dell’immaginario cinematografico dominante, Schnabel racconta qualcosa di meraviglioso dentro un “mondo d’orrore”, un piccolo giardino dell’Eden dentro il "campo di concentramento" della Palestina del '900. Possiamo storcere naso, occhi e bocca di fronte a quest’operazione – e fare gliintellettuali duri e puri – oppure lasciarci accarezzare dalla bellezza e dalla forza cruda della rappresentazione di Schnabel, lui sì artista puro e duro, che ne ne frega di tutti i critici di sinistra e di destra (come già fece del bellissimo Prima che sia notte, dove raccontò le nefandezze della dittatura cubana, e allora i critici di sinistra lo attaccarono) e ci racconta storie di Persone, con dolori, perdite, amori, e tutti quegli strazianti “effetti speciali” della vita…  Non esiste spazio per l’immaginazione, nel medio Oriente”, ha scritto Rula Jebreal, ed è forse proprio sul territorio dell’immaginario che, in futuro, le nuove generazioni – come il cugino di Miral innamorato della ragazza israeliana – potranno metter fine a questa guerra infinita. Perché solo l’immaginazione puo’ salvarci (come Roberto Benigni ne La vita è bella… ).

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