Moda mia, di Marco Pollini

Il secondo film del regista veronese fallisce per ambizione e, insieme, ingenuità: fiaba, realismo, simbolo ed attualità non vanno in sincrono, conferendo confusione e fragilità alla storia

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Una storia vera per raccontare un sogno ed un sogno che si realizza per descrivere un’esistenza reale, autentica, costretta a fare a pugni con una natura matrigna, per quanto favolosa, un retaggio socio-culturale patriarcale ed un genitore padrone, per coronare le proprie ambizioni. È questo l’assunto narrativo e simbolico di Moda mia e non è un caso che lo spunto per la sceneggiatura della pellicola arrivi dalla storia del quindicenne arzachenese Federico Careddu – conosciuto personalmente dal regista nel corso di un soggiorno in Sardegna – uno studente che realizza abiti eco-sostenibili con materiali di recupero e che ha scelto Sassari e l’Istituto Professionale per l’Industria e l’Artigianato “Nicolò Pellegrini” per intraprendere la sua carriera di stilista e dare sfogo al suo estro creativo. Dopo Le Badanti (2015), il quarantatreenne regista veronese Marco Pollini dirige il suo secondo lungometraggio.

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Sardegna nord-orientale. Nel comune di Arzachena, tra il suggestivo borgo di Cannigione e la turistica Palau, a due passi dalla Costa Smeralda, vive Giovanni “Giovannino” Sanna (Francesco Desogus), un bambino di circa dodici anni. Il padre, Antonio (Pino Ammendola), è un pastore che non conosce altra occupazione che non sia l’allevamento del bestiame e il duro lavoro della terra. La madre è appena andata via di casa, stanca dei tradimenti e della rudezza di Antonio. Il ragazzino, che frequenta un istituto tecnico-artistico, si distingue per un precoce talento nella creazione di abiti femminili e, contemporaneamente, si occupa della sorellina Stella e, pur controvoglia, cerca di non deludere le aspettative paterne, prendendosi cura delle greggi e mandando avanti l’attività del padre. La notte, mentre gli altri dormono, diventa l’occasione per dedicarsi alla sua passione: tagliare tessuti, misurarli, cucire fettucce di stoffa e vestire il busto di un manichino che tiene nascosto sotto il letto. A scuola, Giovannino è molto considerato dalla professoressa, che tenta di spronarlo a coltivare questa sua naturale inclinazione e a lasciarsi andare alla fantasia creativa, un percorso verso il quale lo spinge anche un misterioso ragazzo, Domenico, che sembra conoscere le più recondite ambizioni di Giovannino e che si rivelerà presenza cruciale – e simbolica – nel suo percorso di emancipazione. Ma il bambino deve fare i conti con la durezza, l’indifferenza e la severità del padre, per il quale gli unici svaghi sono costituiti da abbondanti bevute di filu ‘e ferru ed incontri lascivi – in barba al benché minimo senso del pudore – con un’amante prostituta.

1scene film2Difficile trovare qualcosa che davvero emozioni, coinvolga e soddisfi pienamente nella pellicola di Pollini. La sceneggiatura, scritta dallo stesso regista, risulta oltremodo povera di spunti originali, di dialoghi credibili e di snodi drammatici convincenti. Un materiale narrativo che dovrebbe offrire elementi di sviluppo problematico, di tensione dialogica e di approfondimento socio-pedagogico viene blandamente diluito e declinato in una confusa dimensione ibrida, a metà tra il lirismo immaginifico della fiaba e l’asciuttezza della rappresentazione realistica. Un proposito piuttosto ambizioso, si direbbe. Un tentativo onorevole e potenzialmente denso di letture di senso, quello dell’autore veneto, ma che rivela pesantemente i suoi limiti proprio nell’incapacità di andare a fondo, di coniugare in maniera efficace e coerente i vari registri espressivi o, in mancanza di ciò, di scegliere una strada precisa da imprimere al racconto. La fiaba del bambino che si emancipa dall’orco – nella fattispecie, un padre-padrone – e dall’ambiente in cui non ha scelto di vivere – una Sardegna selvaggia, immobile ed eternamente pastorale – per inseguire il sogno, quanto mai contemporaneo, di diventare stilista ed incantare le passerelle di Milano con le sue creazioni di haute couture, vive di strappi improvvisi e di trovate sceniche sconnesse che frullano insieme alcuni archetipi del genere (la sirena, la caccia al tesoro, l’angelo custode), senza riuscire a suscitare incanto e stupore: per certi versi, una sorta di rivisitazione locale di Pinocchio – tra professoresse fatine, campi dei miracoli forieri di quattrini ed ambigui grilli parlanti lucignolini – che incontra il topos dello scontro generazionale tipico di tanta letteratura adolescenziale e la potenza catartica del sogno da perseguire di alcune avventure disneyane. Di contro, l’intento icastico visibile nella mise en scène di una terra traboccante di luce e di colori, fatta di nuda roccia ed acque turchesi e di una vita trascorsa tra greggi e pascoli, perde a poco a poco spessore drammaturgico ed afflato simbolico per ridursi alla – per carità – bellissima fotografia di Antonello Zonin, documentaristica quanto basta da guadagnarsi il sostegno della Sardegna Film Commission. E se il montaggio non aiuta a colmare le lacune e qualche ingenuità di troppo della sceneggiatura, ancora minor trasporto empatico verso i protagonisti desta la recitazione del cast. Una nota di merito va al giovanissimo Francesco Desogus, capace di trasmettere al suo Giovannino sfumature delicate e candide, affrontando il ruolo con estrema serietà professionale. Il veterano ed istrionico Pino Ammendola nei panni di Antonio carica di tic e di movenze teatrali un personaggio odioso e gretto con un evidente spirito di denuncia e, insieme, di parodia.

Schermata-2016-12-15-alle-14.21.27Pollini non manca di infarcire il suo prodotto con qualche riferimento a casi spinosi di attualità, più o meno recente, come il terremoto di Amatrice (la solidarietà corre su un taxi che sfreccia per le strade di Milano nel finale), un risarcimento milionario dovuto da Berlusconi in terra sarda (quasi puntualmente citato nella pellicola) e la delicata tematica dell’omosessualità adolescenziale, adombrata nel personaggio interpretato dal giovane Davide Garau, in una struttura sociale eminentemente maschilista come quella ritratta nel film: spunti di per sé interessanti, ma estremamente disorganici nel contesto complessivo della pellicola. Moda mia sembra ricalcare, per certi versi, le atmosfere di Un ragazzo di Calabria di Luigi Comencini (1987) – laddove Giovannino e Mimì si trovano a combattere contro una figura paterna che, pur sulla base di motivazioni personali e sociali diverse, ne ostacola le passioni, impedendone in sostanza la crescita – ma non ne possiede lo spessore drammatico e la pregnanza narrativa, così come la sottotraccia dell’emancipazione dalla rigida disciplina della struttura pastorale che tuttora caratterizza diverse località della Sardegna non può non ricordare il caso letterario del 1975, quel Padre padrone. L’educazione di un pastore, di Gavino Ledda, da cui i fratelli Taviani trassero l’omonimo film del 1977 (premiato a Cannes con la Palma d’Oro).

In definitiva, Moda mia risulta un film piuttosto debole per le sue (troppe) imperfezioni, eppure gli va riconosciuto il pregio di opera fatta con il cuore, come sottolineato da Pino Ammendola: “Riuscire a fare cinema è sempre una grande scommessa, è difficile. Marco Pollini riesce a metterci passione, a trovare un po’ di soldi, e non è facile. Io gli faccio i complimenti. È vero, ci sono forse ingenuità, momenti riusciti e altri meno. Però credo che nel film ci sia una grande anima. Il tentativo di fare una piccola operazione poetica”.


Titolo originale: id.

Regia: Marco Pollini

Interpreti: Francesco Desogus, Pino Ammendola, Valentina Sulas, Margherita Margarita, Mariandrea Cesari, Davide Garau, Giampaolo Loddo, Melissa Satta

Distribuzione: Ahora! Film

Origine: Italia, 2017

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