Monolith, di Ivan Silvestrini

In sala dal 12 agosto il thriller diretto dal 35enne regista romano. Team creativo italiano per un film dal sapore americano che incuriosisce ed intrattiene con qualche calo di tensione ritmica

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Sempre più di frequente il cinema italiano degli ultimi anni si mostra impegnato a sperimentare traiettorie che, se non possono considerarsi del tutto atipiche ed innovative, rivelano una decisa volontà di abbondonare certi archetipi e stilemi connaturati alla cinematografia nostrana e di confrontarsi con storie, tematiche e personaggi caratterizzati da una struttura e da sviluppi le cui radici affondano nel cinema di genere, americano e non solo. Si tratta non soltanto di un atto di amore di numerosi giovani registi, sceneggiatori e produttori verso un universo filmico con il quale sono cresciuti negli anni Settanta ed Ottanta e che ne ha scalfito in profondità l’immaginario, ma anche e soprattutto di una modalità narrativa che consente di aggirare i costi e le lungaggini delle grandi produzioni, di imprimere una maggiore libertà artistica al prodotto e di rivolgersi ad un pubblico più ampio, giovane e al passo con i tempi. Dopo il teaser trailer presentato all’ultima edizione del Lucca Comics & Games, Monolith è stato presentato in anteprima mondiale all’Horror Channel FrightFest di Londra 2016 e in anteprima nazionale al Trieste Science+Fiction Festival dello scorso novembre.

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Tra fumetto e cinema

Monolith nasce come un progetto doppio: lungometraggio e storia illustrata. Roberto Recchioni (Dylan Dog, Orfani) e Mauro Uzzeo (Orfani) hanno scritto il graphic novel omonimo. Lorenzo “LRNZ” Ceccotti, art director del progetto, si è occupato della veste grafica, a cominciare dal design dell’automobile. Gli sceneggiatori Elena Bucaccio e Stefano Sardo – affiancati dallo stesso Uzzeo e dal regista Ivan Silvestrini – hanno lavorato alla riduzione cinematografica del progetto. Un’interessante operazione trans-mediale (“è come la cover di una canzone suonata da due band con stili musicali completamente diversi”, spiega Recchioni), dunque, che vede la sinergia della storica casa editrice di fumetti Sergio Bonelli Editore, della casa di produzione cinematografica Lock & Valentine e di Sky Italia per la distribuzione della pellicola. Un live action drama che Mauro Uzzeo così presenta:Monolith è un progetto particolare che si svolge per la maggior parte in un’unica unità di luogo. Una sorta di Duel che al cinema trova il suo reale compimento grazie a strumenti come la colonna sonora, il montaggio serrato e la bellezza degli ambienti”. Roberto Recchioni aggiunge: “È la storia dell’automobile più sicura del mondo, di una madre non molto responsabile, di un bambino troppo piccolo per avere colpa, di una strada in mezzo al nulla. E di un incidente”. Inevitabilmente, film e fumetto – pur prendendo le mosse da una concezione di sviluppo unitaria – sfruttano i diversi registi espressivi legati ai due differenti formati artistici e raccontano la stessa storia con sfumature molto diverse.

Monolith-FeaturedIl regista del film, Ivan Silvestrini, ha dichiarato:Monolith è una storia che indaga sul nostro rapporto con una tecnologia iperprotettiva, che si sostituisce sempre più a noi nelle nostre scelte. Come un ventre oscuro, la Monolith protegge il bambino di Sandra, da tutto e da tutti, persino da lei. Da sceneggiatore dovrei definire questo film un thriller psicologico, ma da padre non posso che trovarlo un vero e proprio horror. E in ogni fase della sua realizzazione, dalla scrittura alle riprese, non riuscivo a togliermi dalla testa la domanda: cosa farei se capitasse a me e mio figlio? Amo le storie che sanno rivelare un movimento interiore attraverso un accadimento esteriore. La situazione estrema in cui si trova la protagonista di questo film la costringe a confrontarsi con il suo lato più oscuro, con le innominabili pulsioni che ogni genitore affronta nei primi anni di vita di un bambino, e la vittoria della donna sulla macchina è possibile solo attraverso il cambiamento e l’accettazione di una nuova forma d’amore e abnegazione. Realizzare questo film è stata davvero un’impresa epica”.

Dice Roberto Recchioni: “Quando ho avuto l’idea di una madre che in mezzo al deserto e distante da tutto per errore chiude il figlio all’interno della macchina più sicura al mondo, era tutto così dritto, semplice e pulito che ho pensato subito al cinema. Il soggetto è arrivato anche su tavoli importanti, un regista che conoscevo ne aveva subito opzionato i diritti, ma poi come spesso accade tutto è sfumato, e sono tornato a possederli io. A quel punto mi sono indirizzato verso il mondo che conosco meglio, quello del fumetto, ma mentre con la Sergio Bonelli avevamo deciso di dare il via al progetto siamo stati contattati dalla Lock & Valentine, società di post-produzione interessata a produrre il film a partire dalla nostra idea. In breve tempo tutto si è fatto più importante, perché è entrata nella produzione Sky Cinema e la Bonelli stessa”. E ancora: “Siamo partiti da un’idea che non aveva ancora un linguaggio definito. All’inizio ho provato a vedere se poteva diventare un film, ma dopo un paio di anni in cui il soggetto ha girato senza portare a qualcosa di concreto, ho deciso di farne un fumetto, che sapevo di poter realizzare a modo mio. E in quel momento si è aperta una possibilità per il cinema”. A proposito della sceneggiatura Uzzeo racconta: “Ho scritto entrambe le sceneggiature sapendo che sarebbero state due cose diverse: per diversificarle abbiamo deciso di mettere al centro della narrazione due tematiche differenti: nel fumetto esploriamo il sempre più stretto rapporto tra uomo e tecnologia portandolo alle estreme conseguenze, nel film, invece, al centro c’è una complessa relazione madre-figlio. Sia io che Ivan Silvestrini eravamo diventati da poco papà, le nostre compagne hanno fatto da test: più le scene con il bambino erano difficili da guardare più ci convincevamo di star facendo un bel lavoro”.

Racconta Lorenzo Ceccotti: “L’emozione più grande è stata vedere nascere dal nulla la macchina, è lei la protagonista e la location di entrambi i racconti. Volevo tirare fuori un oggetto con le caratteristiche moderne che più disprezzo nell’industria, doveva essere qualcosa di sigillato, non riparabile dall’utente, che rendesse l’idea che non siamo in controllo degli oggetti che utilizziamo. Vederla nascere dal nulla grazie alla Cinema Vehicles di Los Angeles è stata un’emozione indimenticabile. Il cinema non è come il fumetto: ogni cosa, ogni dettaglio ha il suo costo e dovevamo stare nel budget, non è stato semplice ma istruttivo, in più tutto il tempo sul set mi ha permesso di studiare la location, e soprattutto la luce, che in un fumetto pittorico come quello che ho realizzato è fondamentale. La Monolith può essere controllata sia con la chiave, sia con una applicazione per smartphone, il che la rende ancora più accessibile, da un certo punto di vista. Inoltre, dovevo anche evitare che le caratteristiche tecnologiche della macchina diventassero un ostacolo per alcune delle svolte narrative del film”.

Lilith e il deserto

Sandra (Katrina Bowden) resta chiusa fuori dalla sua Monolith, la macchina più sicura al mondo, costruita per proteggere i propri cari da qualsiasi minaccia. Suo figlio David è rimasto al suo interno, ha solo due anni e non può liberarsi da solo. Intorno a loro il deserto, per miglia e miglia. Sandra deve liberare il suo bambino, deve trovare il modo di aprire quella corazza di acciaio, ed è pronta a tutto, anche a mettere a rischio la sua stessa vita. Il calar della notte porterà il buio, il sorgere del sole trasformerà l’automobile in una fornace. Sandra ha poco tempo a disposizione e questa volta può contare solo sulle proprie forze. Sperduta nel nulla, con possibilità di riuscita praticamente nulle, alla mercé di animali feroci e senz’acqua. Il coraggio di una madre riuscirà ad avere la meglio sulla Monolith?

coverlg_home (2)La pellicola è stata girata negli straordinari paesaggi dello Utah, in tre piccoli paesini non distanti l’uno dall’altro, che hanno creato non pochi problemi alla troupe. La scelta di girare in America ed in lingua inglese – nonostante in origine fosse stata proposta come location la Basilicata – risponde ad una precisa scelta strategica e di mercato: favorire la distribuzione della pellicola. Il quartier generale per le fasi di pre-produzione e di montaggio è stato fissato a Los Angeles, dove si trova anche l’officina automobilistica presso cui è stato individuato il modello della macchina, in origine un’automobile della polizia.

Come nel recente Mine (2016), anche Monolith è ambientato in un deserto e ha per protagonista un personaggio “americano” che non può fuggire ed è costretto a fare i conti con i propri dubbi e le proprie angosce. Ma stavolta non ci troviamo in Nord Africa, quello di Monolith non è un deserto piatto e sabbioso, al contrario è roccioso e ricco di creste e di gole: il “Great Salt Lake Desert” nello Utah. A tale proposito, Silvestrini ha detto: “Fabio Resinaro e Fabio Guaglione (LEGGI QUI l’intervista rilasciata dai due registi a Sentieri Selvaggi) li conosco e, anche prima di vedere Mine, ho sempre considerato questi due film come fratello e sorella, perché hanno entrambi un protagonista solo nel deserto con una situazione difficilissima da risolvere, anche se i deserti sono completamente diversi. Il loro è un deserto più classico, un deserto mediorientale. Io invece avevo molta paura che il deserto risultasse visivamente noioso, che è il suo rischio. Ho cercato allora prima nel New Mexico e poi nello Utah, trovando un deserto variopinto, rosso e pieno di pattern e striature, ci sono montagne anche blu e grigie. Combinando location nemmeno troppo vicine tra loro abbiamo creato questo mondo in cui la protagonista si trova, un mondo con i suoi colori e la sua vegetazione”. Nelle intenzioni del regista, anche la ricerca di una cromia che disegnasse scenari vagamente simili alla saga di Mad Max e la suggestione di una location nella quale sono state girate le riprese di John Carter (2012).

gif critica 2Monolith vuole essere anche una metafora di una maternità non accettata e dei momenti oscuri di una giovane donna e madre. L’automobile ultratecnologica che non si può scalfire – una sorta di ventre di acciaio – è il luogo nel quale la giovane Sandra è costretta a fare i conti con la sua vita, tra rimpianti che covano come brace (il sogno di proseguire la carriera di cantante e diventare una star della musica pop) e scelte non ancora metabolizzate (l’abbandono della band in seguito alla gravidanza): è qui che la donna riscoprirà il desiderio di lottare per il proprio figlio e troverà la forza di affrontare le proprie insicurezze. La pellicola, oltre a rappresentare il rischio nel delegare numerose mansioni alla tecnologia, è anche e soprattutto questo: uno spaccato delle reali difficoltà di una madre nella gestione di un figlio, soprattutto se nella fase di crescita rappresenta l’unica persona a prendersene cura, vista l’assenza del padre per la quasi totalità del film. Il rapporto tra la donna ed il marito è relegato nelle fasi iniziali della pellicola – si tratta di un’interazione soltanto virtuale – quanto basta per instillare in Sandra il dubbio atroce che il padre di suo figlio intrattenga una relazione adulterina con la sua migliore amica. Tutto ciò acuisce il senso di distanza e di incomunicabilità: soltanto il piccolo David è la prova tangibile di questa relazione, ma non può ancora esprimersi pienamente e colmare il vuoto emotivo di una madre alla prese con una fase cruciale della propria vita.  L’evoluzione di Sandra prosegue quando si troverà in balia degli eventi: l’aridità del deserto, rovente di giorno e freddo di notte; gli animali feroci; la penuria di acqua e di cibo; la completa solitudine; soprattutto, l’impossibilità di scalfire il guscio metallico del “mostro” tecnologico che tiene come in ostaggio suo figlio. Nemmeno quest’ultimo riesce a identificarla come madre, al punto da appellarsi a lei in molti scene con il suo nome proprio, il loro è un legame ancora immaturo e tutto da  costruire. Solo con il passare del tempo la donna prenderà realmente coscienza del suo ruolo. Ad accrescere il senso di impotenza e solitudine, ecco la trovata di affidare buona parte dei dialoghi ad un sistema operativo intelligente, Lilith, una sorta di “Siri per Android” predisposta per risolvere ogni questione tecnica legata al veicolo e per soddisfare tutte le curiosità del conducente. Fantascienza e realtà si incontrano nelle più ardite sperimentazioni tecnologiche del nuovo millennio: eppure, questa brillante mente artificiale non è in grado di “capire” la drammaticità delle circostanze e di sbrogliare la più semplice delle questioni, ovvero sbloccare le chiusure di sicurezza. Uno dei passaggi più efficaci della pellicola è proprio questo intreccio inestricabile tra ingenuità e inconsapevolezza del bambino, superficialità e distrazione della madre e assenza di empatia del cuore pulsante (e pensante) della macchina. Più evidente il proposito di invitare lo spettatore a riflettere sulle conseguenze di un mondo sempre più governato dalla tecnologia: una frontiera che si pone l’obiettivo di garantire sicurezza, comfort e protezione, ma finisce al tempo stesso per creare dipendenza e costruire barriere che portano all’isolamento e all’alienazione. L’ispirazione del film è tutt’altro che fantastica, traendo spunto da uno dei tanti fatti di cronaca con protagonisti genitori distratti e stressati che dimenticano in auto i propri figli. L’equilibrio tra questi due messaggi rappresenta indubbiamente il dato più efficace e il merito maggiore della pellicola: Monolith resta fondamentale un thriller on the road che strizza l’occhio all’estetica slasher dell’eroina in canotta sporca e disperata quanto basta, senza sconfinare nel dramma psicologico e sentimentale – dove l’amore è quello tra una madre e il suo bambino – o nello sci-fi tecnologico. Ma la tensione vive di strappi improvvisi e non mantiene una costante capace di catturare fino in fondo lo spettatore. E questo è da imputare anche alla recitazione non sempre efficace della Bowden. L’attrice americana ce la mette tutta nel districarsi tra crisi isteriche di pianto, ruzzoloni lungo dirupi rocciosi, bestie fameliche e percosse alla carrozzeria con ogni tipo di strumento che le capiti sotto mano, ma non riesce a sostenere del tutto il ruolo con adeguati approfondimento psicologico e intensità espressiva. Inoltre, le tecniche di ripresa non centrano sempre l’obiettivo di imprimere il giusto dinamismo e la dovuta accelerazione ad una situazione di base statica come quella di un’automobile ferma in un desolato scenario naturale.

Un monolite per la storia

Il nome Monolith è nato quasi subito, perché la prima immagine che ho visualizzato è stata quella di una donna nel deserto che cerca di entrare in una macchina nera, simile al monolite di 2001: Odissea nello Spazio”, spiega Recchioni. “Poi ci siamo resi conto che era anche un nome perfetto per commercializzare un veicolo di questo tipo, soprattutto in un paese come gli Stati Uniti, dove la passione per i SUV e l’ossessione per la sicurezza sono molto radicate”. E su questo monolite di (improbabile) “kubrickiana” reminiscenza la giovane Sandra scaglia ogni tipo di attrezzo, quasi una versione pulp e insieme fumettistica del primate che brandisce un osso e distrugge le carcasse degli animali.

fermo-film-monolith-2017Come sostiene Silvestrini, si possono rinvenire nella pellicola due livelli: uno molto realistico, ed è tutto ciò che avviene all’interno della macchina (non ci sorprendiamo di certo di fronte ad automobili che parlano o che sono progettate per resistere all’esplosione di una mina) e uno che oscilla tra realtà ed immaginazione, ed è tutto quello che accade fuori dalla macchina: “C’è un universo di simboli introdotti nella prima parte che poi tornano come se Sandra stesse affrontando i propri demoni dentro e fuori da sé”, in un percorso che appare disseminato di rimandi sciamanici e di presenze animali cariche di significati metaforici. Dopo tutto, la vera protagonista è Sandra e l’intera struttura narrativa, anche quella tra le righe, ruota attorno al personaggio della Bowden (ed è un peccato, a dire il vero!), mentre la macchina è relegata ad una funzione neutrale e passiva di semplice “obbedienza” ai comandi. In realtà, non c’è chissà quale interazione tra “naturale” e “artificiale”, tanto meno assistiamo ad una “rivolta della invenzione tecnologica” di asimoviana memoria: la Monolith è lì, concepita per muoversi ma ferma, ideata per proteggere ma pericolosa, una base solida e monolitica, appunto, per la storia di Sandra. La differenza la fa chi gestisce la macchina, non diversamente da chi impugna un coltello per affettarci un panino oppure uccidere una persona.

Il film parla dell’incoscienza con cui spesso deleghiamo scelte e responsabilità alla tecnologia, illudendoci di essere così più al sicuro”, racconta Silvestrini. “Sandra non solo si confronta con le conseguenze dell’uso superficiale che fa della tecnologia, ma anche con gli istinti più profondi legati al suo essere madre. Credo sia inevitabile che la gente pensi si tratti di una pellicola statunitense. Negli ultimi decenni si è persa fiducia nel cinema italiano di genere. Si è persa la credibilità negli attori. Lo crederesti mai un attore meraviglioso come Silvio Orlando in un film di fantascienza? Nirvana aveva trovato una formula per far funzionare attori come Abatantuono in un contesto di fantascienza, ma è rimasto l’unico. Ora la mia generazione di registi sta cercando di riavvicinare il pubblico a queste cose e quel che più c’è riuscito, anche visto il riscontro, è stato Gabriele Mainetti con Lo Chiamavano Jeeg Robot”.

Tante buone premesse, alcune scelte registiche e di sceneggiatura originali ed azzeccate, un’ambientazione da togliere il respiro, un art design godibilissimo e degno delle più acclamate produzioni americane, soprattutto un grosso impegno collettivo da parte di giovani artisti di varia estrazione professionale – fumettisti, disegnatori, produttori, registi, sceneggiatori – che ci tranquillizza sulle condizioni di salute e di vitalità di certo cinema italiano e che può fungere da volano per future iniziative creative nei vari settori in cui si articolare l’espressione artistica. Tuttavia, mentre scorrono i titoli di coda rimane la sensazione di qualche incertezza di troppo nella tensione ritmica degli eventi e di qualche “spiraglio narrativo” suggestivo ma non abbastanza approfondito, accompagnata dalla constatazione di un’attrice protagonista forse non in grado di restituire appieno un personaggio che avrebbe potuto regalare una delle eroine “improvvisate” più moderne e iconiche della cinematografia recente.

Regia: Ivan Silvestrini

Origine: Italia, 2016

Interpreti: Katrina Bowden, Damon Dayoub, Brandon Jones, Jay Hayden, Ashley Madekwe, Katherine Kelly Lang, Nixon Hodges, Krew Hodges, Justine Wachsberger

Distribuzione: Vision Distribution

Durata: 83′

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