Mute, di Duncan Jones

Mute si confonde dietro la sua storia stanca perdendosi i dettagli e le suggestioni che Berlino, anche nella sua versione più posticcia, sa regalare. Su Netflix

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Ancora una volta Berlino è al centro di tutto. Multiforme e inamovibile, la capitale tedesca è una città magica e fantascientifica, conservatrice e queer, spettrale ed eccitante. Se Roma è la città dove la Storia si mostra, strato su strato, in tutto il suo eterno divenire, Berlino è, invece, l’unico luogo al mondo dove ogni Tempo esiste allo stesso momento. Girando per la metropoli c’è, infatti, il rischio di imbatterci nelle macerie post caduta nazista (Intrigo a Berlino, Il ponte delle spie), di vivere la fine della Storia con la caduta del muro (Atomica Bionda, Goodbye Lenin), di respirare le trasgressioni e la libertà anni settanta del Nuovo cinema tedesco e della Trilogia di David Bowie, di ritrovarci centinaia di anni nel futuro per salvare la vita di una ragazzina, rapita da due balordi esaltati. Con Mute il regista Duncan Jones, forte dell’importanza che la città ha avuto nella sua storia famigliare, si immerge nella meravigliosa contraddizione temporale di Berlino, scegliendola come sfondo per questo suo piccolo progetto personale, dal sapore vintage come le cianfrusaglie sovietiche sulle bancarelle di Chackpoint Charlie.

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Dopo il disastro/successo di Warcraft, Mute è il tentativo del regista inglese di tornare  a casa, nei territori indipendenti del suo meraviglioso esordio Moon. Nato come un progetto segreto, prodotto quasi nell’anonimato di chi, per rinascere, deve scappare da tutto e da tutti, Mute perde presto distribuzione fino ad arrivare nella Nazione Libera di Netflix. Il colosso dello streaming, infatti, arruolando sempre più progetti sci-fi orfani dei grandi studios (Annientamento, The Cloverfield Paradox) e riesumando serie hipster (Black Mirror) è interessato a spingere una deriva del genere più celebrale e “spettacolare”, dove Mute e il suo quasi contemporaneo Altered Carbon sono solo le ultime perle.

Oltre ad una questione temporale (le due opere sono uscite a qualche giorno di distanza) Mute ha più di un legame con l’affascinante serie di Laeta Kalogridis. Il protagonista scandinavo, l’ambientazione plumbea, la chiara impostazione noir/hard boiled, sono solo alcuni dei tanti elementi che creano una continuità che va oltre una semplice coincidenza. L’evidenza più importante è la condivisa, chirurgica adesione ad un immaginario che, passando dalle tante suggestioni cyberpunk giapponesi, guarda ossessivamente a Blade Runner. A differenza di Altered Carbon, dove l’omaggio è dichiarato da una farsesca e sovraesposta narrazione (che trasforma presto il prodotto in un divertente giocattolo), Mute sbatte sul paragone per il peso della sua ambizione e per l’ottusità del suo sviluppo, rimanendone schiacciato. Non c’è via di fuga dal confronto (cercato, ostentato, replicato) con il film di Scott e il risultato è la delusione. Mute si confonde, quindi, dietro la sua storia stanca e rimane ancorato alle performance zoppicanti dei suoi, pur bravi, interpreti (lo stoico Alexander Skarsgård, i disgustosi Paul Rudd e Justin Theroux), perdendosi i dettagli, le sfumature e le suggestioni che dietro tutto, Berlino, anche nella sua versione più posticcia, sa regalare con travolgente generosità.

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