My heart’s in the highlands. Il cappello di Bob Dylan

Bob Dylan porta finalmente a casa il Premio Nobel per la Letteratura. L’importanza della sua produzione degli anni 60 e 70 è incommensurabile, ma cosa ci dice un suo album del 97, Time out of mind?

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Una cospicua parte di quello che sono oggi lo devo a Time out of mind, l’album di Bob Dylan del 1997. Un disco che non è Highway 61 Revisited o Blonde on Blonde, e se è per questo non è manco Desire. E però parla una lingua talmente metropolitana in grado di influenzare decisivamente il mio immaginario e i miei sogni per sempre, un po’ come pochi anni dopo farà il sound di Avenue B di Iggy Pop: solo che Iggy me lo andai a trovare da solo, mentre di Dylan mi parlava spesso mio padre, ridevamo di questa voce sgangherata e delle canzoni sghembe e lunghissime del periodo del thin mercury sound che ascoltavamo in macchina dalle musicassette cigolanti, tornando dal corso di inglese mi chiedeva se capivo qualcosa di quelle che lui intuiva soltanto fossero “dei racconti piuttosto complessi”.
Io gli chiedevo ma com’è fatto Dylan, lui mi descriveva questo cantastorie incazzato perennemente con il cappello in testa, io fantasticavo per tutta la strada verso casa sulle avventure misteriose che quella voce disegnava, mi pareva di capire qualche nome di personaggio tra le parole smangiucchiate, chissà quanto ci prendessi davvero.
Ad ogni modo, se ci fosse bisogno solo di un’ulteriore ragione per il Nobel a Bob Dylan, potrebbe bastare Love Sick, il pezzo di apertura di Time out of mind: dando un’occhiata al testo e ascoltandola per bene, si capisce come il dylaniano d.o.c. Oren Moverman abbia deciso di dare lo stesso nome dell’album al suo film con Richard Gere senzatetto tra la gente di New York perché canzoni come Love Sick sembrano veicolare lo stesso identico senso di smarrimento urbano delle immagini ultrastratificate del racconto di Moverman, la quotidianità tra vetrine e riflessi di un visionario solitario e col cuore in pezzi tra le strade di una megalopoli.

Com’è noto fu Daniel Lanois a creare il fondamentale tappeto sonoro dalle suggestioni altamente cinematografiche su cui Dylan costruisce le narrazioni di Time out of mind, ma vi garantisco che su un 13enne del Profondo Sud d’Italia quei blues pieni di riverberi e giochi di echi tra gli strumenti ebbero l’effetto di dipingere con pochi tocchi l’istantanea di un qui e ora che mi appariva lontanissimo, fatto dello stesso colore sgranato dell’immagine di copertina: il mio sogno americano era nato, e parlava una lingua elettrica.
Anche ascoltando l’esibizione dal vivo ai Grammy’s del ’98, qua sopra, è ancora pazzescamente tangibile la tensione assoluta di cui vivono le composizioni dell’album, e Love Sick su tutte: al momento del solo di Dylan l’aria si fa talmente elettrificata che credi possa avvenire da un attimo all’altro un blackout che mandi le telecamere in corto. Da allora ho sempre cercato la stessa urgenza, la stessa tensione espressiva e la stessa forza materica da energia statica in ogni esperienza artistica, sullo schermo, su disco, su pagina.
La prima volta che ho fatto km per andare a sentire Dylan dal vivo, qualche anno dopo l’uscita di Time out of mind, Bob inserì con mia somma gioia in scaletta una manciata di brani dall’album del ’97, e anche lì era perfettamente percettibile la differenza di densità col resto della produzione recente, il fatto che roba come Cold irons bound provenisse da una dimensione aliena, un tempo probabilmente vicino ad un’apocalisse in tempesta, una fine dei giorni per inversione dei poli magnetici.

Ecco, all’epoca i telegiornali italiani parlavano di Time out of mind soprattutto per via di Highlands, il brano di 16 minuti che chiude l’album, il più lungo mai inciso da Dylan. Di nuovo, ci fosse bisogno di un’ulteriore dimostrazione del perché ieri il musicista abbia vinto il Nobel per la Letteratura, consiglio la lettura delle lyrics straordinarie di Highlands: I don’t want nothing from anyone, ain’t that much to take, wouldn’t know the difference between a real blonde and a fake…
Negli stessi giorni dell’uscita del disco, Dylan compare a Bologna per esibirsi di fronte a Papa Giovanni Paolo II. L’evento va in diretta tv e la parrocchia di Arnesano organizza una visione collettiva in sagrestia: mi costringo a varcare la soglia ecclesiastica per la troppa curiosità di partecipare al gruppo d’ascolto, che contava anche di un celebre artista locale, fan del Dylan guerrigliero d’inizio carriera (do a protest song!) e dunque parecchio sarcastico sulle reali ragioni dell’happening. Insomma, per farla breve, fino ad oggi sono stato sempre convinto che il cantautore avesse eseguito Highlands in versione integrale, in quell’occasione, e ripensandoci ho puntualmente sorriso “ecco come Dylan ha sabotato l’appuntamento istituzionale, costringendo tutti ad ascoltare un brano di un quarto d’ora pieno di strofe interminabili!”.
Scopro stasera che in realtà in scaletta c’erano invece tre classicissimi, e chissà perché la mia memoria per vent’anni mi ha fatto questo scherzo. A metà performance, Dylan si avvicina a salutare il Papa (inciampando sugli scalini), e porta la mano al suo Stetson. “Non toglierti il cappello!”, si alza una voce tra le sedie della sagrestia. Era l’irriducibile pittore del paese: “Non toglierlo!”
Dylan non lo accontentò, e devo dire che all’epoca un po’ quella devozione mi deluse.
Oggi so che il punto non è il cappello, ma il peso di continuare a portarlo. I know it looks like I’m movin’, but I’m standing still

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