"My little eye", di Marc Evans

Quella di Evans è un'opera tesa nel suo compito concettuale da portare a termine e priva di qualsiasi ulteriore sfumatura, che segue il vezzo imposto da certa televisione, dai moderni mezzi di comunicazione e dalla non più moderna paura orwelliana che ne deriva.

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Ogni volta che esce un film come questo, o come Thomas in love in precedenza, viene da chiedersi dove sta andando o più semplicemente come sta mutando la grammatica cinematografica. E non ci riferiamo solo a quelle opere che occludono semplicemente il loro perimetro dentro quattro mura, altrimenti dovremmo pensare anche a Funny Games o a Il cubo, o a Shining, per esempio. Ma piuttosto a quelle come My Little Eye che in questa restrizione profilmica trovano il pretesto per glorificare/immolare l'ubiquità dell'occhio meccanico (come se non fosse già onnivedente per sua natura), in questo caso nascosto-smascherato dietro la cover della moderna webcam. Non più quindi soggettive (il film si dalla prima inquadratura ne sottolinea il decesso), né carrellate, né tanto meno plateali movimenti, ma solamente panoramiche e zoomate assunte dalla celebrazione dell'oggettiva irreale.  Marc Evans (regista del documentario Giuseppe Tornatore: a dream dreamt in Sicily), pur con una geminazione infinita di macchine da presa e dunque di punti di vista, limita, sposa il suo sguardo e il suo movimento con quello di una fantomatica e diegetica webcam. Ecco quindi che lo iato fra la messinscena e il suo spettatore è teoricamente annullato, ecco che la trasparenza che connotava un film non propriamente classico come Il cubo, è in My Little Eye, sin dal suo titolo, messa in scacco.

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In scacco come i suoi protagonisti. 5 ragazzi ospiti-prigionieri in una casa-set controllata telematicamente 24 ore su 24. Gli stessi, per intascarsi il premio di un milione di dollari a testa infatti, dovranno giungere insieme al sesto mese di permanenza. Se solo uno di loro si arrende e abbandona la casa, la partita è chiusa e i giochi sono fatti. Ma sono fatti e finiti in partenza anche quelli di My Little Eye. Che è un'opera tesa nel suo compito concettuale da portare a termine e priva di qualsiasi ulteriore sfumatura, che segue il vezzo imposto da certa televisione (Il grande fratello), dai moderni mezzi di comunicazione e dalla non più moderna paura orwelliana che ne deriva. Anche qui, come in altri esperimenti, ciò che latita è il desiderio di costruire un meccanismo che aspiri a farsi passione, a metafora della vita e del cinema. Il film è così chiuso nelle spire del suo test che non riusciamo ad avvertire il minimo soffio di vitale sincerità e per questo nemmeno di folle paura; e questo, per un horror, è forse il difetto più importante.


Non c'è passione in My Little Eye proprio perché la sua costruzione collima perfettamente con il risultato sotto gli occhi dello spettatore. E' questo allora il mutamento linguistico (di moda) di cui parlavamo. La messinscena del regista si specchia così simmetricamente e senza soluzione di continuità con quella interna al film, interna alla casa, da non lasciare nessuna possibilità di vita al suo film. La messinscena è così ostentatamente calibrata e organizzata, da sembrare veicolata piuttosto da una camera a circuito chiuso (come le webcam, infatti), compresso e soffocato. Un'opera come quella di Evans, che desidera incarcerare per la sua interezza l'occhio dello spettatore con quello di un'oggettiva (ma soggettiva, penseranno alcuni), mostra subito la corda e denota l'incombenza di un apparato registico che vorrebbe mostrare l'invedibile, ed invece non fa altro che raccontare solo se stesso.


 


Titolo originale: My Little Eye
Regia: Marc Evans
Sceneggiatura: David Hilton, James Watkins
Fotografia: Hubert Taczanowski
Montaggio: Marguerite Arnold
Musica: Bias
Scenografia: Laura MacNutt
Costumi: Kate Rose
Interpreti: Sean Cw Johnson (Matt), Jennifer Sky (Charlie), Kris Lemche (Rex), Stephen O'Reilly (Danny), Laura Regan (Emma), Bradley Cooper (Travis Patterson), Nick Mennel (il poliziotto)
Produttori: Jonathan Finn, Alan Greenspan, David Hilton, Jane Villiers per Studio Canal/Universal Pictures/WT2/Working Title Films/imX Communications Inc.
Distribuzione: UIP
Durata: 95'
Origine: Stati Uniti/Gran Bretagna/Francia, 2002

 

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