Mystic Prince

Prince è un virus che entra in circolo da sè, forte di convenzioni filosofiche sulla musica e sul genio che trascendono la materia, il corpo, il secolo che viviamo. Secondo outtake da SSMagazine21

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Ancora un outtake da Sentieri Selvaggi Magazine n.21.
Anche Prince sarà parte delle visioni sul “Potere Bianco, Cuore Nero” di giovedì alle h 19 da Sentieri Selvaggi. INGRESSO GRATUITO

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1. facoltà creatrice, ingegno superiore; anche, la persona che ne è dotata; un’opera di genio, che rivela un ingegno particolare

2. attitudine, talento, disposizione naturale.

 

Queste sono le prime due definizioni che troviamo sul vocabolario Garzanti cercando la parola genio. Ricordo come da ragazzino durante un sabato pomeriggio passato a vedere un programma di Video Music – era l’inverno del 1989 – mi imbattei in un commento entusiasta alla Batdance. Si parlava di Prince come del Beethoven dei nostri tempi: “Non ci stancheremo mai di ascoltare il genio di Minneapolis” disse alla fine il conduttore prima di lanciare una pausa pubblicitaria. Si sa come siano soprattutto certi ricordi ancestrali dell’infanzia a ossidarsi nella memoria producendo abbinamenti concettuali e sensoriali a modo loro indelebili. La prima idea di genio artistico della mia vita – dopo le accelerazioni visive di Diego Armando Maradona nell’86 – per un po’ di tempo venne incarnata da Prince e dalla sua bizzarra soundtrack per il Batman di Tim Burton, tra le prime musicassette che mi ritrovai ad acquistare e di certo non l’opera migliore del nostro – ma non provate a dirmi che Scandalous e Partyman non siano bei pezzi!

Prince è un sempre stato un enigma. Polistrumentista androgino e provocatore, capace di suonare ogni genere di musica, ha disseminato la propria vita privata e artistica di mille contraddizioni. I suoi testi del periodo d’oro passavano dall’esaltare amplessi e rapporti orali per poi sbilanciarsi in rifrazioni religiose, che avevano come riferimento soprattutto la Bibbia. Questa attenzione pseudoanarchica alla Parola e ai testi lo ha portato a un certo punto della sua vita ad abbracciare il misticismo millenarista dei Testimoni di Geova, mettendo improvvisamente in discussione l’immagine edonista che negli anni ’80 lo ha reso l’artista discografico più celebrato e pagato del mondo. Così in quest’ultima parte della sua vita è diventato un lussuoso performer sospeso in una dimensione extratemporale, come fosse l’immortale Dorian Gray di un mondo musicale appartenente al passato. Dopo esser stato il primo vero autore postmoderno, Prince si indirizzava in modo quasi naturale a essere il più grande musicista vintage del nostro tempo. Proprio per questo paradossalmente si stava affermando come il più contemporaneo tra i grandi superstiti del rock – uso questo genere come pura convenzione sintattica sapendo bene come si addica solo parzialmente al complesso caleidoscopio musicale di capolavori come 1999, Around a World in a Day, Parade o del semiclandestino disco funky/dark The Black Album. La sua morte a 57 anni ha sorpreso perché ha interrotto un incantesimo che univa l’eterna giovinezza con l’eterno passato. E quindi il presente. In fin dei conti Prince era riuscito a sopravvivere all’atto più autolesionista che un musicista può compiere: cambiare il proprio nome… anzi cancellarlo, sostituendolo con un simbolo. C’era insomma qualcosa di ontologicamente inesatto nel pensare a una sua definitiva scomparsa.

 

Arriviamo presto alla definizione di una vera e propria mistica princiana dove la musica conta più dell’artista che a sua volta torna a valere più della musica. E’ un gioco di specchi che racconta bene l’astrattezza ambigua che circonda questo genio della musica e del marketing. Nonostante l’eterogeneità musicale, Prince è stato infatti un artista che più di ogni altro ha curato la propria icona attraverso l’immagine, il brand, un’estetizzazione anche cromatica del suono che ne ha fatto un meraviglioso imprenditore pop di se stesso (e della Warner Bros certo). Contemporaneamente è stato il primo musicista ad abbracciare la rete senza troppi snobismi, salvo poi preoccuparsi del free sharing ed eliminare ogni trac

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prince_moviecia della sua musica da YouTube e Spotify, suggerendo un’ossessione patologica per il controllo degna di uno Stanley Kubrick e sancendo un vuoto nella fruizione multimediale a cui non eravamo più abituati (a tal proposito è puntuale la riflessione di Rolling Stone sulle modalità celebrative applicate dai social network).

Ora a dieci giorni di distanza dalla sua morte si affaccia una domanda vagamente inquieta. Dietro tutta questa forma cosa ci rimane di Prince? La risposta non è semplice. Ad esempio l’immensa produzione discografica, composta da ben 39 album in studio, è quasi impossibile da ascoltare e memorizzare. Seguire Prince in questi 40 anni è stato infatti troppo faticoso per chiunque. Una sfiancante dimostrazione di bulimia creativa accomunabile, forse, solo alla produzione di Frank Zappa – con cui condivide un gusto per l’ironia e il gioco onanistico molto lontano dalla seriosità di certi intellettualismi alimentati da parametri sessantottini. La verità è che l’universo Prince è un ginepraio per qualsiasi critico musicale o fan della prima ora. Anche perché parlare o ricordare Prince significa soprattutto pensarlo. Musicalmente è stato talmente tante cose (funky, soul, disco, rock, hip-hop) da rischiare di non esser nulla di preciso se non, semplicemente, una indiscriminata e scellerata propagazione di quella facoltà che chiamiamo genio. Ma così ancora una volta torniamo alle definizioni, alle etichette, agli stilemi critici che conoscono un po’ tutti e contribuiscono a sostenere l’icona mitologica come i 24 strumenti che sapeva suonare, gli attestati di stima di Miles Davis o il primo album registrato a soli 17 anni.

In questa nebulosa purple che circonda l’artista, essere o meno fan della sua musica diventa secondario. Perché sostanzialmente Prince è un virus che entra in circolo da sè, forte di convenzioni filosofiche sulla musica e sul genio che trascendono la materia, il corpo, il secolo che viviamo e le canzoni che gratuitamente non riusciamo più a reperire in rete. La verità è che il suo Mito era già stato scritto da un dio che non conosciamo. E ora siamo confusi se riascoltare Sign O’ the Times o provare a rivalutare l’ultimo HITNRUN Phase Two. E’ un dubbio che fa di noi quasi dei privilegiati tra gente ignara che non rispettiamo. Quel presuntuoso di Prince ci avrebbe voluto bene.

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    2 commenti

    • Ascoltare tutta la sua discografia si può, si deve, specie se si sente che ci dà energia e dolcezza che non riusciamo a trovare in noi. La sua musica può essere fonte di ispirazione senza stancare o abituarsi.

    • Complimenti sinceri. Il più bell’articolo sul Principe che abbia letto da molto tempo a questa parte. Da 32 anni non ho mai smesso un solo giorno di ascoltarlo e “pensarlo” e condivido ogni singola parola di quello che hai scritto.