Nell’erba alta, di Vincenzo Natali

Dall’omonimo racconto scritto da Stephen King insieme al figlio Joe Hill, non fa mai nulla per nascondere la natura smaccatamente cerebrale del prodotto. Su Netflix

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La dimensione del racconto, inteso come short story, continua a esercitare un fascino irresistibile per Vincenzo Natali, regista da sempre legato a modelli narrativi fondati su un numero ristretto di elementi dai quali partire per sviluppare le proprie storie. Era così nel suo esordio (Cube – Il cubo, che rimane il suo film migliore), ed è così anche oggi con Nell’erba alta, tratto dall’omonimo racconto scritto da Stephen King insieme al figlio Joe Hill. Il terzo adattamento dello scrittore del Maine targato Netflix (dopo Il gioco di Gerald e 1922), da una sceneggiatura dello stesso Natali, cerca di ovviare ai limiti imposti dall’unità di luogo rigenerando continuamente un plot che, già sulla carta, rischia di non reggere fino in fondo il formato di un lungometraggio (una costante del cinema del regista: basti pensare infatti a Cypher e a Splice, per esempio, entrambi mortificati da una narrazione incapace di andare al di là di una singola idea di partenza). E all’inizio sembra davvero di ritrovarsi ancora una volta dalle parti dei territori di Cube, con i protagonisti imprigionati in mezzo alla folta vegetazione esattamente come accadeva tra le pareti mortali del film del 1997: un green screen naturale in grado di proiettare pericoli e tensioni, oltre che un ostacolo insormontabile per i suoi personaggi, impossibilitati a vedere e a capire cosa si nasconda nel fuori campo. Ma è soltanto l’inizio: dopo un incipit semplice ma promettente, Natali stravolge il plot con una serie infinita di loop temporali, impossibili da raccontare e persino difficili da comprendere a una prima visione, costringendo lo spettatore a interrogarsi continuamente sulla successione cronologica degli eventi.

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Il risultato però non ripaga dello sforzo: Nell’erba alta gioca di accumulo per forzare l’idea di una profondità che non c’è, trasforma i personaggi in pedine prive di volontà e non fa mai nulla per nascondere la natura smaccatamente cerebrale del prodotto, quando invece se c’è una cosa che in King non manca mai è proprio il cuore. Troppo calcolato persino per essere catalogato come weird, forse, perché l’inquietudine non è mai suggerita ma imposta a priori da un meccanismo freddo e studiato a tavolino, in cui persino il talento visivo di Natali fa fatica a emergere, smarrito tra brutti inserti digitali ed estemporanee manifestazioni visionarie (la chiesa in mezzo al nulla, la setta dai toni folk horror). E alla fine tutte le intuizioni migliori rimangono solamente degli spunti appena accennati: come ad esempio la pietra scura “al centro dell’America”, vero e proprio nucleo nero di suggestioni e sentimenti di un Paese intero, in grado di riscriverne la Storia unicamente con lo scopo di ripeterla all’infinito. Quello che rimane, come ormai troppo spesso accade, è il disappunto, la costante sensazione di impotenza di fronte ai più recenti adattamenti da Stephen King, autore troppo grande e stratificato per essere trasposto con leggerezza e senza una visione d’insieme.

 

Titolo originale: In the Tall Grass
Regia: Vincenzo Natali
Interpreti: Patrick Wilson, Laysla De Oliveira, Harrison Gilbertson, Rachel Wilson, Avery Whitted
Distribuzione: Netflix
Durata: 101′
Origine: Canada, 2019

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
1.8

Il voto al film è a cura di Simone Emiliani

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Il voto dei lettori
2.33 (3 voti)
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