NERO/NOIR – Jim Thompson – Bad Jim (2)

Jim Thompson con Robert Redford

Era la fine del 1940 quando Jim Thompson, per la prima volta e senza alcun successo, aveva bussato alle porte degli Studios. «La storia è troppo biasimevole in ogni passaggio della trama per essere presa in considerazione per il grande schermo», avrebbe detto, alcuni anni dopo, un selezionatore della Warner Brothers di Tornerò per farti fuori. Parole simili avrebbero accompagnato la lunga lista di rifiuti opposti da  Hollywood

--------------------------------------------------------------
CORSO COMUNICAZIONE DIGITALE PER IL CINEMA DALL'11 APRILE

--------------------------------------------------------------

Bad Jim (seconda parte). Come si fa a fare del male a qualcuno che è già morto?

--------------------------------------------------------------
#SENTIERISELVAGGI21ST N.17: Cover Story THE BEAR

--------------------------------------------------------------

--------------------------------------------------------------
THE OTHER SIDE OF GENIUS. IL CINEMA DI ORSON WELLES – LA MONOGRAFIA

--------------------------------------------------------------
Jim ThompsonEra la fine del 1940 quando, un anno dopo esser stato costretto a firmare le dimissioni da direttore dell’Oklahoma Writers’ Project a causa della sua militanza nel Partito Comunista, Jim Thompson aveva lasciato Oklahoma City e si era diretto verso la costa occidentale. Guidava l’automobile del Partito che doveva consegnare a San Francisco: la Plymouth nera di Woodie Guthrie, con il quale Thompson si era battuto per l’affermazione dei diritti dei lavoratori in Oklahoma e grazie al quale avrebbe trovato un editore per Inferno sulla terra (1942), il suo primo romanzo pubblicato. Hollywood era un richiamo seducente e, soprattutto, ben pagato, e, una volta giunto in California, Thompson si era fermato a Los Angeles bussando, senza alcun successo, alle porte degli Studios. «La storia è troppo biasimevole in ogni passaggio della trama per essere presa in considerazione per il grande schermo», avrebbe detto, alcuni anni dopo, un selezionatore della Warner Brothers di Tornerò per farti fuori (1952). Parole simili avrebbero accompagnato la lunga lista di rifiuti opposti da quella Hollywood imbrigliata nelle sempre più strette maglie del Codice Hays e soffocata dalla caccia alle streghe scatenata dal maccartismo. Una Hollywood che, pur essendo riuscita a scendere nelle zone più oscure e sporche e nel malessere della società americana, soprattutto attraverso quel genere, il noir, che Thompson conosceva assai bene e dal quale era stato influenzato nella creazione delle visioni laceranti e dei cupi deliri dei suoi personaggi, non era pronta ad ospitare nel suo grembo il mondo senza alcuna morale o possibilità di salvezza descritto da Thompson, dove lo scollamento tra percezione e realtà – che domina in larga parte l’imponente corpo di opere scritte nei primi anni ’50 e, passando per la discesa di Doc McCoy nell’inferno di El Rey in In fuga, esplode in una delle più crudeli e disperate creazioni di Thompson, il Nick Corey di Colpo di spugna – non è mai una distaccata, e dunque, in certo qual modo, rassicurante e anestetizzata, discesa nelle menti e negli universi criminali, ma il paesaggio interiore di un’umanità sconfitta, nel quale prende forma l’immagine ambigua del vuoto che prosciuga e sommerge l’anima e che risuona disperatamente attraverso una prosa asciutta e implacabile, fatta di voci stanche e arrese e di folli litanie che cantano l’avvento dell’Incubo Americano.
Rapina a mano armata/Orizzonti di gloriaAnche se soltanto nella sottostimata realtà dei paperback, Jim Thompson era riuscito ad emergere dal limbo dell’anonimato grazie alla feconda collaborazione con Arnold Hano e la Lion Books. Era stata proprio la prima opera pubblicata con la Lion Books, L’assassino che è in me (1952), e il cupo e sardonico cinismo di Lou Ford a lasciare un segno nel giovane Stanley Kubrick, che avrebbe scelto di collaborare con Thomspon per portare sul grande schermo il romanzo di Lionel White, Clean Break. Oltre ad aver infuso una torva ironia e un tono ruvido e grottesco ai dialoghi di Rapina a mano armata (1956), «Thompson ha modulato», scrive Robert Polito in Savage Art, «il caper di White con momenti che evocano i suoi romanzi. Ha messo a fuoco le tensione omoerotica tra l’anziano contabile Marvin Unger (interpretato da Jay C. Flippen) e il capobanda Johnny Clay (Sterling Hayden). (…) Ha ripreso il tema criminale-come-artista de L’uomo da niente. “Spesso penso che il gangster e l’artista siano la stessa cosa agli occhi della massa”, filosofeggia in un inglese incerto il lottatore Maurice Oboukhoff (Kola Kwarian). “Sono ammirati e venerati come eroi, ma è sempre presente il desiderio nascosto che, all’apice della gloria, cadano in disgrazia”». Dopo l’esperienza di Rapina a mano armata, la collaborazione con Kubrick, seppur segnata dall’amara delusione di Thompson, che aveva visto il suo lavoro solo in parte riconosciuto, con l’attribuzione dei dialoghi e non anche della sceneggiatura del film, non si era ancora esaurita e, dando allo scrittore l’illusione di essere ormai stato ammesso nell’olimpo hollywoodiano, aveva portato alla creazione di Lunatic at Large, la novella “perduta”,  dalla quale doveva essere tratto un film mai realizzato, e aveva fatto nascere la sceneggiatura firmata da Kubrick, Calder Willingham e Jim Thompson, di Orizzonti di gloria. Un film che si muove sulla sottile e incerta linea, esplorata da Thompson in quasi tutti i suoi romanzi, che separa colpa e innocenza, per raccontare una guerra dove il nemico non è l’esercito che siede nell’altra trincea, ma le aberrazioni del potere che, per perpetuare se stesso, insulta e calpesta la vita e cerca di propagare il morbo della corruzione e della paura.
Jim Thompson con Robert RedfordNonostante il grande successo ottenuto da Orizzonti di gloria, le strade di Thompson e di Hollywood – a prescindere dal frustrante lavoro per la televisione, per serie come Mackenzie’s Raiders, Man Without a Gun, Cain’s Hundred, Dr. Kildare e Convoy – si sarebbero incrociate di nuovo solo dopo 15 anni, quando le vecchie strutture degli Studios, segnate non solo da una grave crisi economica, ma anche da un forte ritardo culturale e ideologico, erano state rivoluzionate da una nuova generazione, i protagonisti della Nuova Hollywood. Ma se il Cinema degli anni ’50 e ’60 aveva esorcizzato, escludendola dal suo immaginario, la spirale di orrore, di fallimento e d’impotenza nella quale Thompson ha fatto sprofondare la sua America, la Nuova Hollywood sarebbe riuscita a confrontarsi con le sue opere solo semplificandole, fino a spogliarle della loro ambiguità e della loro forza corrosiva, e mitigando la disorientante degradazione morale dell’universo thompsoniano.
Il confronto con le regole della scrittura cinematografica e l’adattamento del romanzo di Lionel White avevano “influenzato” la struttura di In fuga, che, come scrive Michael J. McCauley, «contiene più “azione” esterna della maggior parte delle precedenti fatiche di Thompson, e la rapina alla banca che apre il romanzo è raccontata con la tecnica spostamento di scena/mutazione temporale simile a quella usata da Lionel White in Clean Break». Pubblicato nel 1959, In fuga prende in prestito i meccanismi narrativi di Clean Break senza mai veramente aderirvi e, operando un lento e perfettamente orchestrato slittamento, lascia scivolare il racconto in una crudele e desolante esplorazione delle relazioni umane, regolate dal sospetto, dalla menzogna e dal rabbioso risentimento. Dietro la fuga che scandisce il romanzo e che non è altro che la presa di coscienza dei due protagonisti di percorrere una strada che conduce alla dannazione, Doc McCoy e Carol sono esseri isolati, senza avvenire, mutilati nel loro universo interiore ed emotivo dalle regole di un demoniaco organismo sociale di cui sono parte integrante e dal quale è impossibile fuggire, il regno di El Rey, grottescamente deformato da Thompson e ricalcato sull’immagine dell’America capitalistica, dove il cannibalismo è l’unica possibilità di sopravvivenza. Samuel The Getaway film e romanzoFuller aveva visto In fuga «il romanzo criminale più originale mai scritto», e aveva aggiunto, «posso girarlo senza una sceneggiatura». Sarebbe stato invece Sam Peckinpah, nel 1972, a portarlo sul grande schermo, realizzando il primo film tratto da un’opera di Thompson, con Steve McQueen e Ali MacGraw nei ruoli di Doc McCoy e Carol. Walter Hill, che aveva sostituito Thompson, giudicato inadeguato, nella stesura della sceneggiatura di Getaway!, avrebbe affermato: «la visione implacabile, circolare e ripetitiva di Thompson è tutta concentrata sulla mente criminale, patologica e paranoica: una concezione che non ha mai trovato spazio – e difficilmente ne troverà – nel cinema commerciale americano. Se la sceneggiatura avesse rispettato pienamente lo spirito di Jim Thompson, Steve McQueen non avrebbe mai accettato di interpretare il film, e nessuno sarebbe stato disposto a finanziarlo». Getaway! è un film assai distante da Thompson e dal suo romanzo. Rimangono i nomi dei personaggi e solo in parte la storia, depurata dei suoi passaggi più potenti e crudeli (la macabra discesa nell’inferno di El Rey), ma la velenosa visione thompsoniana di un universo in cui non resta che il vuoto e la complessità psicologica di Doc McCoy, che dietro il suo affascinante e bonario sorriso nasconde una pericolosa assenza di moralità, non trovano alcuno spazio nel film di Peckinpah. La caduta di Doc diventa in Getaway! la ribellione romantica verso un altrove ancora possibile – lo spazio oltre la frontiera verso cui fuggono i due protagonisti nel finale del film – dell’eroe crepuscolare e “integro” nella sua irriducibilità di fronte alle logiche alienanti e deviate della realtà sociale americana. Nel 1994 In fuga sarebbe stato portato sul grande schermo una seconda volta. Nella sua scialba e inutile operazione, Roger Donaldson non era tornato su In fuga per confrontarsi con l’universo thompsoniano, ma si era limitato a ricalcare stancamente il lavoro di Peckinpah e di Hill (con solo qualche trascurabilissima modifica e cercando di dare maggior spazio al personaggio di Carol), nel tentativo di ripeterne il successo commerciale e di sfruttare la visibilità di una celebre coppia hollywoodiana, Alec Baldwin e Kim Basinger.
Marlowe il poliziotto privatoDopo aver interpretato, nel 1975, il piccolo ruolo del giudice Baxter Wilson Grayle accanto a Robert Mitchum, in Marlowe, il poliziotto privato, di Dick Richards, il terzo film tratto da Addio, mia amata di Raymond Chandler, Thompson, ormai gravemente provato nel fisico dalla sua dipendenza dall’alcol, aveva visto finalmente realizzata sul grande schermo una delle sue opere più importanti, L’assassino che è in me. Interpretato da Stacy Keach, il Lou Ford del film di Burt Kennedy è solo un pallido riflesso del protagonista del primo grande romanzo scritto da Thompson. The Killer inside me non solo ne castra i passaggi più violenti e scabrosi, ma, non cogliendo l’insidiosità di Lou Ford, che con la sua narrazione in prima persona, inganna, come scrive Robert Polito, «se stesso e il lettore allo stesso modo in cui si diverte con le sue vittime e ride in faccia ai suoi persecutori», distorce la figura stessa del vice-sceriffo di Central City, Texas, spogliandola della sua natura incerta e doppia. Senza alcuna condanna o rassicurante distacco, ma, anzi, aderendo intimamente al nichilismo del suo personaggio, Thompson disegna Lou Ford come un uomo sospeso tra le distorsioni di una mente malata e il lucidissimo disprezzo per il genere umano, tra l’inconsapevole innocenza di chi agisce sopraffatto da un demone interiore e la macabra colpevolezza di un assassino freddo e spietato che punisce il mondo per i suoi peccati e che, a beneficio della comunità in cui abita e confondendo la narrazione stessa, recita con un’astuzia stupefacente il ruolo dell’accomodante e non troppo brillante vice-sceriffo e giustifica i suoi crimini con la “malattia” ricevuta in eredità da quell’istituzione (la famiglia), che dietro un falso perbenismo nasconde il suo volto ipocrita e corrotto e trasmette il seme del male dal padre al figlio. Burt Kennedy si limita piattamente e senza alcuna trovata degna di nota ad appropriarsi della parte più superficiale de L’assassino che è in me, e riuscendo a tradurre sullo schermo unicamente lo scorrere degli eventi, guarda Lou Ford – al contrario di Thompson – solo dall’esterno, senza mai riuscire a far risuonare l’implacabilità di quella voce che, in un gioco perverso, continua a contraddire se stessa fino a mostrare l’inestricabile vuoto interiore nel quale, per riuscire a sopravvivere, ha lasciato affogare ogni sentimento.
The killer inside me film e romanzpMentre in America i romanzi di Thompson sarebbero rimasti confinati nell’ombra fino a dopo la sua morte, avvenuta nel 1977, in Francia il valore della sua opera era stato riconosciuto da tempo, tanto che, già nel 1966, Colpo di spugna era stato il romanzo scelto come titolo numero mille della prestigiosa Série Noire della Gallimard. Nove anni dopo Alain Corneau aveva contattato e raggiunto Jim Thompson a Los Angeles per lavorare insieme a lui alla sceneggiatura di Colpo di spugna. A portare sul grande schermo il romanzo non sarebbe stato Alain Corneau, il quale nel 1979, due anni dopo la morte di Thompson, avrebbe invece realizzato un film tratto da Diavoli di donne. Ma questa, di nuovo, è un’altra storia.

 

--------------------------------------------------------------
CORSO ONLINE SCRIVERE E PRESENTARE UN DOCUMENTARIO, DAL 22 APRILE

--------------------------------------------------------------

    ISCRIVITI ALLA NEWSLETTER DI SENTIERI SELVAGGI

    Le news, le recensioni, i corsi di cinema, la riviste, i libri, gli eventi e tutte le nostre iniziative


    Array

    Un commento

    • complimenti per l'articolo… è questa la sentieri che vogliamo. viva la qualità in barba a chi perde tempo a contestare i pezzi su ex e il cinema italiano