NERO/NOIR – True Detective: il genere (nel) caos

In attesa di nuovi contributi sulla Seconda Stagione, torniamo sui primi “True Detective”: Rust e Marty sono due opposte declinazioni del noir che producono un nuovo ibrido dal caos dei segni

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Giorni di nulla. E’ così quando lavori a un caso. Giorni come cani smarriti. Si va avanti così…” (Rust Cohle/Matthew McConaughey).

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“…conosci il mestiere, cerchi una trama, interroghi i testimoni, collezioni prove, stabilisci una linea temporale e costruisci una storia. Giorno dopo giorno.” (Martin Hart/Woody Harrelson).

 

Il noir, in fondo, è sempre stato questo. Un perturbante abisso morale che avvolge i “cani smarriti” nel nero dell’immagine, opposto a una frastagliata linea temporale che “costruisce una storia” e redime il mondo nel racconto. Due opposti che si attraggono, si scontrano, proprio come i true detective Rust e Marty. Ecco: nella sua geometrica e visionaria destrutturazione della memoria (cinetelevisiva) condivisa, la prima stagione della serie tv più vista/discussa degli ultimi anni non fa altro che scovare e catalogare una serie infinita di “scarti” narrativi (di storia-mito-cultura americana) che sembrano ormai gravitare nel nulla. E allora il fumetto e il cinema, il Sud e l’amicizia virile, i predicatori e il gospel, gli Hells Angels e le droghe, i serial killer e i sacrifici rituali, le donne pericolose e le mogli angeliche, il nichilismo del loser e la legge patriarcale dell’integrato… un tangibile caos dei segni che noi smaliziati (tele)spettatori del nuovo millennio siamo invitati a riconoscere e condividere istantaneamente.

Gli stessi Rust e Marty, del resto, sono ombre del passato proiettate nel presente. Smarriti depositari di una memoria pericolosa, archivi in carne e ossa, interrogati per noi da due silenziosi poliziotti/spettatori che cercano di filmare i loro ricordi. Marty è il “classico”: il buon padre di famiglia americano che crede nella civilizzazione e nella sacralità della famiglia, nella responsabilità come fondamento sociale e nella religione come percorso di salvezza. Tutte istanze messe clamorosamente in crisi: “sapete cosa vuol dire essere padre? Significa essere responsabile di altre persone, essere responsabile delle loro vite. Ma, oltre un certo punto, c’è un’evidente inutilità nell’essere responsabili”. Marty ha i suoi evidenti punti di rottura: le donne, l’alcool, le risse, ma tutto questo non riesce mai a scalfire sino in fondo il suo costrutto filosofico che è il portato culturale del suo ambiente. I grandi spazi del Sud e i campi lunghi fordiani che (anche in televisione!) segnano un preciso referente.

True-DetectiveRust, invece, è il “(neo)noir”. L’uomo del post-storia convinto dell’ineluttabilità del male e dell’eterno ritorno dell’identico: “quando non riesci a ricordare le tue vite passate, non puoi cambiarle, e questa è la terribile e segreta sorte della vita: sei intrappolato nell’incubo in cui continui a svegliarti”. Rust è l’icona di un cinema/televisione condannato al riciclo cronico da questa lucida entropia. Se in Marty riecheggiano le tensioni (a)morali del western classico (il razzismo e la pietà, la violenza e la responsabilità, il deserto e il giardino); in Rust balenano solo i riflessi in immagine (dagli abissi lynchani di Twin Peaks o Strade Perdute, sino al mind game movie di marca fincheriana sulla retta Seven/The Game/Zodiac). Queste due declinazioni forti del nostro immaginario si incontrano, si scontrano, si riconoscono e producono un nuovo ibrido.

Il tempo del genere, pertanto, si adegua: Rust e Marty sono due poliziotti dal 1995 al 2002 e la narrazione strizza l’occhio al sottogenere televisivo police procedural; nel presente, il 2012 degli interrogatori, i due sono diventati ex poliziotti e la narrazione scivola verso un torbido hard boiled decuplicando l’ambiguità del loro agire. Questo “buio” narrativo durato dieci anni, conseguente alla rottura del rapporto di amicizia tra i due, avviene guarda caso in un momento fatidico (il 2002, il post 11 settembre, la cesura netta nella storia e nell’immaginario americano) che ha inciso enormemente sulla stessa industria dello Spettacolo. Il genere muta costantemente pelle e i due personaggi diventano medium viventi di una notevolissima riflessione sul deposito dei segni e sul loro ennesimo riciclo in era social.

true1La Tv di True Detective, pertanto, assume paradossalmente una portata saggistica sulla “condizione” (post-postmoderna?) del cinema contemporaneo (fruito per lo più in rete…): da un lato il tono noir di schraderiana memoria e le struggenti resistenze dei film di Eastwood (Changeling, Mystic River), Affleck (Gone Baby Gone, The Town) o Cooper (Out of the Furnace); dall’altro le superfici riflettenti degli straordinari The Counselor di Scott, Road To Nowhere di Hellman, Millennium di Fincher o The Canyons dello stesso Schrader, dove l’abisso insondabile non è più “l’animo umano” ma la stessa immagine. È il cinema stesso che diventa il leggendario Falcone Maltese da ritrovare.

Due anime, due mondi, due declinazioni. Ma nessuno dei due riesce individualmente a interpretare il presente. Ecco allora che la colta e complessa scrittura di Pizzolatto, al suo ennesimo detour, segna la svolta verso il sottogenere più popolare degli ultimi trent’anni: il buddy movie, l’amicizia naif che unisce gli opposti “al di là del bene e del male” e ci fa scivolare verso gli anni ’80 di Miami Vice o Starsky e Hutch, di Arma Letale o 48 ore. Un incontro tra sguardi che sancisca ancora la redenzione dei cani randagi e dell’immagine che li ospita. Ed è allora tra televisione, cinema e web – si è veramente smarrito ogni confine – che tutti questi scarti sospesi nel vuoto ritrovano una loro gravità negli occhi degli unici veri detective rimasti su piazza: noi produttori/spettatori dell’immaginario contemporaneo.

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