No Fire Zone. Jacques Audiard racconta Dheepan

Un incontro esclusivo con Jacques Audiard, a Roma per sostenere l’uscita in sala in italia del suo ultimo film, vincitore al Festival di Cannes 2015 della Palma D’Oro

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Sono molto contento di aver vinto la Palma d’Oro, ma a me piace parlare di cinema, non di tematiche sociali. Dheepan non è un film sul problema dei migranti, ma sull’integrazione.”
Mette subito le cose in chiaro Jacques Audiard, a Roma per sostenere l’uscita in sala in italia del suo ultimo film, vincitore al Festival di Cannes 2015: sarà stata la forte opposizione dimostratagli dai Cahiers du Cinéma, per i quali il cineasta è colpevole di una incapacità di racconto sul presente francese?
“La natura politica del film sta nella volontà di dare un nome ed una storia a personaggi anonimi e sconosciuti, e i migranti sono per definizione figure anonime. In questo caso, è la forma del cinema a dar loro un passato, un tragitto ed un futuro.”

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E’ evidente da subito nella calorosa passione con cui Audiard articola la sua risposta sulla questione della “forma del cinema”, che per l’autore il fulcro dell’intera impalcatura sia proprio lì, nel “passaggio da una verosimiglianza iniziale ad una stilizzazione che trasforma i personaggi in eroi”. E’ un momento di interludio in cui, spiega Audiard, il regista interroga personalmente lo spettatore: “vuoi seguirmi dall’altra parte del confine con il genere?”
In Dheepan, l’istante è letteralmente messo in scena dal protagonista che traccia sul terreno le coordinate della “No Fire Zone”, una sequenza che Audiard ha costruito avendo chiara in mente la scena della colluttazione sul prato di A history of violence di David Cronenberg: “ma anche Taxi Driver è chiaramente omaggiato dalla salita sanguinosa delle scale di Dheepan. Sono riferimenti e forme cinematografiche che però ho riconosciuto solo a posteriori, non mentre lavoravo al film, così come le analogie tra Dheepan e Il profeta, che sono chiarissime, ma me ne accorgo solo ora.”

Due opere che parlano di una fuga, di un’evasione, “ma solo apparente, nel finale la nostra Yalini conquista la Londra che ha sognato per tutto il film. La chiusura inglese è stata molto dibattuta, ma a me pare chiaro che quella non è la Londra reale, ma uno scenario da sogno, una Londra falsa illuminata da un sole indiano, un sole che i londinesi non hanno mai sperimentato! Quando ho girato Un sapore di ruggine e ossa ho percepito i limiti del lavorare con una sceneggiatura blindata, chiusissima. In questo caso abbiamo allora lasciato volutamente degli elementi da sviluppare durante le riprese, l’amore che sboccia tra i nostri due protagonisti, e il rapporto con il personaggio di Brahim. Un’improvvisazione controllata sul set, dovuta anche al fatto che gli attori non professionisti parlavano una lingua che nessuno di noi capiva, e loro non capivano la nostra. Alcuni dialoghi li ho scritti sul set durante le pause tra un ciak e l’altro!”

Un attore non professionista è sempre convinto di essere stato scelto per interpretare se stesso e la sua storia, racconta Audiard, “ma con Antonythasan Jesuthasan è stato sufficiente sottolineargli che lui non era il personaggio, ma avrebbe dovuto incarnarlo, modificando gestualità, postura, voce, al di là di facili aderenze psicologiche e sociali. Il punto fondamentale era capire che fine fa la violenza che queste persone vivono nelle zone di guerra da cui provengono: per i nostri reduci esistono stuoli di psicologi che li seguono al loro ritorno, ma i migranti invece restano soli. Come lavora in loro la rimozione? Per questo mi interessava domandarmi se dietro quei fiocchi rosa al neon si nasconde un vigilante.”

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