Noi Albinoi, di Dagur Kari

L'ansia conoscitiva del protagonista, il desiderio di fuga verso terre hawaiiane logicamente speculari, la curiosità esperita negli spazi senza legacci etici trovano così compimento in un accumulo di scene dal basso profilo emozionale

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Nòi è un personaggio dalla fisicità magnetica e glaciale, oltremodo consona ad aspettative di alienazione. Non può non suscitare dubbi la puntualità con cui pubblico e festival di mezza Europa (Rotterdam, Angers, Rouen, Gothenburg), in attesa di un’eventuale consacrazione agli Oscar, rispondono ad appelli così studiati, predisposti. Il trentenne Dagur Kàri (al suo esordio dopo il mediometraggio di diploma alla Scuola di Cinema danese, il pluripremiato Lost Weekend) gioca di sponda con vitalità borderline riconoscibili (il padre ubriaco, la nonna che spara colpi di fucile al mattino). La sintassi del discorso non ne risulta frantumata. Ne trova nocumento solo la figurazione di un’esistenza impossibile da normalizzare in un ambiente sordo ed immutato. L’ansia conoscitiva del protagonista, il desiderio di fuga verso terre hawaiiane logicamente speculari, la curiosità esperita negli spazi senza legacci etici trovano così compimento in un accumulo di scene dal basso profilo emozionale (contrappuntate dalle intense musiche degli Sslowblow, il gruppo di Kàri) il cui fine latente risulta ogni volta il bizzarro se non il fantastico. Nòi l’albino, Nòi l’Ufo, Nòi il drop-out dei ghiacci ogni volta che si rapporta col reale ne viene sistematicamente respinto. I suoi scatti, depurati da istanze ribellistiche solo apparenti, restano un giocoso tentativo di contatto con un’umanità imbalsamata, che si vorrebbe abbandonare ma che si ritrova asfissiante in ogni strada, in ogni angolo. Inevitabilmente ogni intuizione (la teledidattica col registratore ceduto al compagno di banco), ogni dimostrazione di ingegno (il cubo di Rubik, le partite a Mastermind), ogni illusione sentimentale sarà svilita. Nòi cerca un senso possibile e qualora lo trovi necessita dell’ulteriore. Una brama panteistica che per risolversi non può che sfuggire di mano, oltre l’uomo, oltre la persona. La catarsi finale è così una im/provvida valanga che tutto copre, nasconde, rimuove. Per sospendere il mondo nella stasi. Un congelamento dell’Assurdo cui si prestano funzionalmente i paesaggi islandesi, quanto mai sconfinati ed irriconoscibili. Un fascino anche molto turistico alimentato negli anni da una cinematografia nazionale sin troppo sterile.

Titolo originale: Nòi Albinòi

 

 

Regia: Dagur Kàri

 

 

Sceneggiatura: Lucas Sussman, Darren Aronofsky, David Twohy

 

 

Fotografia: Rasmus Vidaebeck

Montaggio: Daniel Dencik

 

 

Musiche: Orri Jonsson, Dagur Kàri

 

 

Scenografia: Jon Steinar Ragnarsson

 

 

Costumi: Linda B. Arnadòttir, Tania Dehmel

 

 

Interpreti: Tómas Lemarquis (Nòi), Throstur Leo Gunnarsson (Kristmundur ‘Kiddi Beikon’ ), Elin Hansdóttir (Iris), Anna Fridriksdóttir (Lina), Gérard Lemarquis (insegnante francese)

 

 

Produzione: Lene Ingemann, Kim Magnusson, Skúli Fr. Malmquist, Thor Sigurjonsson

Distribuzione: Lucky Red

 

 

Durata: 93′

 

 

Origine: Islanda/Germania/Gran Bretagna/Danimarca, 2003

 

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