Orizzonti di gloria, di Stanley Kubrick

Manifesto antimilitarista, “Paths of Glory” è un’opera di aspra, ironica, denuncia dell’ipocrisia del potere: arguta scacchiera impreziosita da toni espressionistici. Stasera, ore 21, Sky Classics

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«Il diritto del più forte, del più astuto, abile o scaltro nel fare tutto ciò che occorre per sopravvivere al più debole e sventurato è una delle lezioni più terrificanti della storia».
(Zygmunt Bauman, Amore liquido, Editori Laterza)

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Tra i molteplici generi affrontati, e ciascuna volta messi alla prova, stravolti e riplasmati dall’interno della loro stessa forma, Stanley Kubrick sembra avere sperimentato una predilezione precoce e decisa nei confronti del film bellico. Così era stato dapprincipio, con un esordio – pressoché un test d’osservazione – portato a termine a soli venticinque anni, che purtuttavia lasciava già presagire profondità di senso e intenti la quale innalzò lo spessore del lavoro al livello di parabola umana, annunciando il genio (e molti temi) a venire di questo cinema. Eppure, tra l’acerbo Fear and Desire (1953) e il penultimo capolavoro firmato dal maestro, Full Metal Jacket (1987), dunque tra un’indagine sui sentimenti più profondi e travolgenti della condizione umana e un’altra incentrata, invece, sulla vera e impietosa vita di guerra, era trascorsa un’altra – inestinguibile – esperienza bellica, che Kubrick definì come il suo film contro la guerra o contro una certa idea perversa del potere.

Orizzonti di gloria (1957) nasce, dunque, come manifesto kubrickiano intrinsecamente antimilitarista, realizzato con estremo coraggio – ma sulla scia di altri film concernenti temi analoghi, dal classico All’ovest niente di nuovo di Milestone al più recente Prima Linea di Aldrich, apparso l’anno precedente – , ispirandosi all’omonimo romanzo di Humphrey Cobb (1935), reduce della Grande Guerra e narratore di fatti verosimilmente accaduti nella storia della follia militare. Nondimeno, quell’audacia che condusse un giovane – e non ancora universalmente affermato – regista, insieme al suo produttore, James B. Harris (con la partecipazione della star del film, Kirk Douglas), verso una pellicola di tale impatto, venne pagata con un drastico divieto di distribuzione in Francia lungo quasi venti anni e con la necessità di trasferire le riprese su suolo tedesco.
Un risentimento, quello della nazione francese, decisamente prevedibile per un film che si apre – con un’ironia smaccata – al ritmo dell’inno La Marseillaise (Allons enfants de la Patrie. Le jour de gloire est arrivé!), ma dove quell’osannato “giorno della gloria” che arriva, corrisponde alla tomba scavata nelle trincee dalla stessa Patria o, peggio, è il frutto diretto di un patriottismo-canaglia.

Francia, 1916: dopo due anni di insostenibile guerra di trincea combattuta contro i tedeschi sul fronte occidentale, all’esercito francese viene dato ordine di sferrare un attacco contro il cosiddetto “formicaio”, chiave della difesa tedesca considerata pressoché inespugnabile. La decisione viene presa dal generale Mireau (George Macready) su invito del generale Broulard (Adolphe Menjou) dello Stato Maggiore, con l’obiettivo di risollevare le sorti della guerra e, principalmente, di ottenere avanzamenti di carriera e ambite onorificenze. L’attacco condotto dalla prima ondata si rivelerà, come previsto, un fallimento su tutta la linea: il battaglione, comandato dal nobile colonnello Dax (Kirk Douglas), verrà ingiustamente accusato da Mireau di “codardia di fronte al nemico” ed esemplarmente punito con il processo e l’esecuzione insindacabile di tre soldati scelti a caso.

Kubrick stende le (sue) premesse senza preamboli, sovraccaricando l’immagine iniziale dei generali a colloquio nelle atmosfere piacevoli del Castello di Schleißheim come una caricatura spietata e amara del gioco del potere universale. Tra amicizie subdole e maschere di miserabile ipocrisia, si consumano scelte di vita e di morte altrui: un’operazione di disumanizzazione che il cineasta reitera e accentua a ogni inquadratura adottando spietati toni espressionistici, dettagli volti a smentire e ridicolizzare i mille volti dell’autorità, carrelli (a precedere, a seguire, alcuni in emblematica soggettiva) calati dentro le trincee insieme ai soldati, affogati tutti nella melma dell’ingiustizia. Il nemico c’è, eppure non si vede: privando la narrazione della controparte necessaria a una guerra in senso tradizionale, Kubrick preferisce tracciare diagonali complesse lungo i corridoi e nelle stanze del castello, posizionando i suoi soldati come le pedine del gioco degli scacchi, e così svelando la natura della più grande ingiuria, quella della slealtà e dell’ipocrisia.
Un’unica, quasi interminabile, sequenza di angoscia pura – l’esecuzione cristologica dei tre soldati – si presta a un’oggettività spietata, senza filtri, ove la morte è servita (in mirabile prospettiva) come fosse quella dell’umanità stessa. E la dolce voce di Christiane Susanne Kubrick, nel finale, serve catarticamente a riscattarci dal dolore insostenibile di quelle immagini che – come poche – astraggono i fatti e vi trapiantano un senso nuovo, immenso, imperituro.

Titolo originale: Paths of Glory
Regia: Stanley Kubrick
Interpreti: Kirk Douglas, Ralph Meeker, Adolphe Menjou, George Macready, Wayne Morris, Richard Anderson, Joe Turkel, Timothy Carey, Christiane Kubrick
Durata: 86′
Origine: USA, 1957

Genere: guerra

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