Oro Verde – C’era una volta in Colombia, di Cristina Gallego e Ciro Guerra

Lo scontro tra due narrazioni: da un lato c’è la struttura di genere, il racconto criminale, dall’altro il tentativo di entrare nel cerchio magico, nei misteri e i miti di una tradizione orale

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Si inizia con un avvertimento, “Questa storia è stata ispirata da fatti reali accaduti nella regione di La Guajira tra i decenni 1960 e 1980”, a garantire l’invenzione narrativa con la verità della storia. Come se fosse necessario trovare una giustificazione all’immaginazione, ribadire la sua capacità di raccontare, leggere e interpretare la realtà dei fatti, degli accadimenti, delle trasformazioni. Ma tant’è… già in questo incipit c’è il segno della doppia anima di Oro verde.

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La penisola della Guajira, all’estremo nord dell’America latina, tra Colombia e Venezuela, è una terra aspra, desertica, abitata dai nativi Wayuu, un popolo di “barbari, senza Dio, senza legge e senza re”, come ebbero a dire gli spagnoli messi alle strette dalle loro rivolte e resistenze. Ma in realtà, come ovvio, si tratta di un popolo con le sue strutture sociali, le sue credenze e tradizioni, le regole di comportamento, il senso dell’onore, i legami di sangue e di clan indissolubili. E che, fieramente, ha cercato nel corso dei secoli di difendere la propria autonomia contro gli alijunas, quelli che vengono da fuori per “arrecar danno”, i veri barbari, a cominciare dall’uomo bianco. Ma si poteva resistere fin tanto che il nemico aveva un volto ed era identificabile, finché era questione di battaglie e l’assalto era condotto con le armi. Nel momento in cui la minaccia concreta si è mascherata dietro il fantasma dell’economia e del suo potere di penetrazione globale, quando l’arma ha smussato le punte e si è trasformata in denaro, ecco arrivare finalmente la peste, quella piaga letale capace di infettare gli animi più puri e coraggiosi. L’integrità originaria, indigena, è stata contagiata dall’illusione di un El Dorado nascosto nella giungla pericolosa dei traffici, leciti o illeciti che fossero.

Proprio da qui, dall’inizio della fine, parte Ciro Guerra, autore che ha costruito la sua reputazione nei grandi festival (San Sebastian, Cannes…) e che ha deciso di farsi affiancare alla regia dalla sua produttrice abituale, Cristina Gallego. Tutto prende le mosse dal 1968, dal momento in cui Rapayet decide di chiedere la mano della bella Zaida, che da poco ha compiuto il rito di passaggio all’età adulta. Secondo gli usi e i costumi dei Wayuu, l’uomo deve portare una ricca dote al clan della ragazza, guidato dall’agguerrita Úrsula, donna terribile capace di leggere i sogni e i segni. Vitelli, capre, collane cerimoniali: per ottenere tutto questo Rapayet si lancia nel traffico di marijuana, tra fricchettoni americani dei corpi di pace, inaffidabili soci alijunas e clan rivali. E attraverso la parabola criminali dei personaggi, si tratteggia la caduta di una comunità che ha perso l’originalità del suo spirito, per arrendersi alla narrazione ufficiale e colonizzatrice dell’economia imperante, alla retorica uniforme e kitsch dei simboli del successo e del potere.

Due anime, dicevamo. Ciro Guerra, come già nei suoi precedenti lavori (El abrazo de la serpiente, Los viajes del viento) attraversa i luoghi e le storie della sua terra con un profondo rispetto del loro mistero. E perciò il suo sguardo, più che porsi dall’esterno, da una prospettiva di ricerca antropologica e di documentazione etnografica, cerca di entrare nel cerchio magico, di farne parte e trovare così una sintonia con quelle voci originarie, con il senso arcano delle loro formule rituali. È come se il suo cinema volesse essere l’ultima declinazione e l’estrema forma di sopravvivenza di una tradizione orale. Perciò il film si dipana tra il 1968 e il 1980 attraverso cinque “canti”, cioè storie che passano attraverso la valenza sacra della parola e si fanno mito. Mentre le immagini più volte si caricano di segni, cercano di tradurre visivamente questa trama di figure e spiriti ancestrali, fino a vivere in un tempo sospeso.

Dall’altro lato, c’è invece l’invasione della struttura di genere, il racconto criminale, con i suoi punti di svolta certi, le sue traiettorie risapute. Ed è l’evidenza dell’assalto del cinema già visto e uniformato, delle narrazioni condotte lungo il filo di progressioni drammatiche perfettamente organizzate e consolidate. Queste strutture premono sulla trama segreta, le tolgono spazio e respiro. E il titolo italiano del film, con quel rimando ai c’era una volta, quella promesse di favole criminali riconoscibili e di tempi mitici in disfacimento, già sembrerebbe sancire il trionfo di questa invasione, di quest’esigenza di normalizzazione. Eppure Ciro Guerra e di Cristina Gallego cercano di evitare le formule, di non cedere alle tentazioni dello spettacolo, si tengono a distanza dalla rappresentazione della violenza o dal realismo delle interpretazioni, dagli effetti di proiezione e immedesimazione. Del resto lo stesso protagonista Rapayet è relegato al ruolo passivo di vittima di un destino inoppugnabile, cui è condannato per il peccato originale di essere sceso a patti con i demoni alijunas… Insomma, il senso della loro operazione ste nel cercare un linguaggio condivisibile, trasversale, ma restando ancora attenti ai pájaros de verano o ai birds of passage, per mantenere in vita lo spazio indecifrabile e inappropriabile del mito. Fino, addirittura, a piegare i canoni del genere in un altro sistema di codici, nel formulario di un’estenuante etica wayuu, con le sue obbligazioni e compensazioni (in questo senso il paragone che viene in mente, pur con tutte le dovute distanze, è con gli yakuza di Pollack e Schrader…). L’equilibrio non è sempre possibile o riuscito e il rischio sottinteso è quello dell’esotismo da esportazione. Ma resta l’urgenza del gesto.

 

Titolo originale: Pájaros de verano

Regia: Cristina Gallego e Ciro Guerra

Interpreti: Carmiña Martínez, José Acosta, Natalia Reyes, Jhon Narváez, Greider Meza, José Vicente

Distribuzione: Academy Two

Durata: 125’

Origine: Colombia/Danimarca/Messico/Germania/Svizzera, 2018

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