#Oscars2016 – La rivincita di Sly

Quarant’anni dopo la notte degli Oscar del 1976 che incoronò Rocky, Stallone ha la possibilità di ottenere la statuetta che gli era sfuggita. Una rincorsa durata quattro decenni.

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Secondo Steven Soderbergh è il 1976 l’anno di svolta nella storia di Hollywood, quello che segna la fine della New Hollywood e l’inizio di una specie di Restaurazione con i blockbuster ad alto budget e film di maggior impatto commerciale. Il regista di Sesso bugie e videotape anticipa di un anno questo turning point, che di solito gli storici riconducono all’uscita in sala di Star Wars. Nel dettaglio Soderbergh individua proprio la notte degli Oscar del ’76-’77 “il momento in cui fu chiaro che tutto era cambiato”. Il 1976 fu davvero un’annata storica! Se guardiamo la cinquina dei film che si contesero la statuetta in quella stagione abbiamo davanti cinque grandi classici del cinema americano: Quinto potere, Tutti gli uomini del presidente, Questa terra è la mia terra, Taxi Driver e Rocky. Alla fine vinse quest’ultimo e Sylvester Stallone entrò quasi subito nell’Olimpo delle grandi star di Hollywood. Quell’anno Rocky era il film che era andato più forte al botteghino e forse è per questo che la sua vittoria è stata spesso vista come una sconfitta per il cinema d’autore. Abbiamo però già affrontato questo argomento nel nostro omaggio a Rocky Balboa e con tutta la “buona” volontà è azzardato definire Rocky come un film estraneo alla New Hollywood, semmai rappresenta l’ipotesi di una nuova rilettura proletaria dell’american dream. Rocky è un oggetto filmico di pura transizione. Magma emotivo che racconta un immaginario in continua mutazione. Eroe immortale capace di delineare un percorso autobiografico prepotentemente autoriale.

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La notte di quel 27 marzo  Rocky non fu il film che vinse il maggior numero di statuette, ma quello che ottenne i premi più importanti: Film, regia, montaggio. Tre riconoscimenti su nove nomination. Rimasero a secco le quattro interpretazioni candidate, ossia Stallone, Talia Shire, Burt Young e Burgess Meredith, mentre come regista John G. Avildsen ebbe la meglio su Alan J. Pakula, Sidney Lumet, Ingmar Bergman e la “nostra” Lina Wertmuller che diventò la prima donna a essere candidata per la regia. Nominato come attore protagonista e per la sceneggiatura originale Sylvester Stallone – autentico ideatore del progetto e del personaggio di Rocky – non vinse nulla. Se ne ricordarono i produttori Robert Chartoff e Irwin Winkler al momento di salire sul palco per ritirare l’Academy al miglior film, portando con sé l’attore. “A tutti i Rocky del mondo: vi amo!” disse Sly alzando i pugni verso la platea.

Quarant’anni dopo Stallone ha nuovamente la possibilità di ottenere quella statuetta per lo stesso personaggio. Una rincorsa durata quattro decenni. È il favorito nella categoria del miglior attore non protagonista per la sua interpretazione in Creed del giovane Ryan Coogler. Se dovesse vincere sarebbe molto probabilmente anche l’unico riconoscimento a un film scritto, diretto e largamente interpretato da afroamericani, in un’edizione contraddistinta da un’accesa polemica discriminatoria nei confronti delle minoranze. L’eventuale vittoria di Stallone sarebbe la vera grande storia della serata da raccontare ai posteri: la “vecchia” star che riassapora il Mito, la rivincita del più grande boxeur della storia del cinema. Facciamo apertamente il tifo per lui e se non sarà standing ovation vuol dire che è un brutto mondo.

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