Parchi, mostri, visioni. Di alcuni tendenze nel documentario USA

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Che cos’è il cinema del reale? Domanda da porre subito per poi lasciarla lì. Perché senza risposta?… Riflessioni sulle forme estreme del cinema del reale a partire da Leviathan (2012) di Lucien Castaing-Taylor & Véréna Paravel. Torna la rubrica DOCUMENTARIO, con Daniele Dottorini

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Che cos’è il cinema del reale? Domanda che è necessario porre subito per poi lasciarla lì, senza risposta. Perché senza risposta? Perché ciò che il discorso critico ha ormai abbandonato (o dovrebbe farlo) è l’istinto definitorio, il gusto di creare definizioni o di cercare ipotesi ontologiche (il “che cos’è il cinema”), così come il gusto del giudizio di valore, della critica giudicante più che militante (il “che cosa deve essere il cinema”). Ma allora cosa resta? Resta tutto, e non è poco. Resta la sfida del gioco sempre aperto tra scrittura e visione, la sollecitazione per gli occhi e il pensiero, il desiderio di prolungare un’esperienza di visione e di aprire dei percorsi, di trovare connessioni e complicità, di scrivere delle lettere aperte, come diceva Serge Daney, che condividano uno sguardo.

 

Nelle forme attuali del cinema del reale – o documentario, o cinema per il reale, cinema di creazione, o cinema non-recitato: qualsiasi definizione è valida perché insufficiente – questa apertura, questo gusto per sperimentare nuove forme di visione e di interrogazione del reale (altra parola difficile: “reale”. ma perché definirla, ora? meglio comprenderla via via, usandola) è straordinariamente presente, in forme molteplici e aperte. Pensare e riprendere le forme del cinema documentario di creazione significa esercitarsi a pensare una delle forme vive del cinema, proprio quando da più parti si insiste nel parlare di post-cinema (altra definizione che lasciamo lì, guardandola con sospetto). Ecco allora il senso e lo scopo di una nuova rubrica sul documentario (che si inaugura qui), quello di seguire questi percorsi, attraversarli e intercettarli per quanto possibile, raddoppiarli in una scrittura, incrociarli con altre forme, altrettanto aperte. Non si tratta di pensare il documentario come spazio a sé (sin troppo colpevolmente assente dalla cultura cinefila contemporanea); si tratta di aprire uno spazio per pensare il documentario come luogo contemporaneo del cinema, forma estrema a suo modo eppure non “lontana”, non “a parte” rispetto al cinema, anzi. Quella documentaria è una forma e un’idea del cinema, non un suo genere.

 

Una piccola digressione iniziale era necessaria per introdurre questo primo appuntamento di una rubrica che appunto vuole essere – qui su Sentieri Selvaggi – un percorso aperto, di confronto e di scrittura sulle forme attuali di tutto quello che possiamo pensare come cinema del reale.

leviathanEcco, allora si può iniziare con un primo piccolo viaggio, una traccia che arriva da una delle tendenze più affascinanti e interessanti del cinema contemporaneo, giustamente ibrido, fuori dai “soliti” percorsi produttivi e realizzativi. “Di alcune tendenze”: si potrebbe intitolare così un percorso sulle tracce di uno dei film più sorprendenti del 2012, Leviathan, di Lucien Castaing-Taylor & Véréna Paravel. Esperienza sensoriale e percettiva, viaggio filmico stupefacente, Leviathan ha attraversato il mondo lo scorso anno, passando da festival come Toronto o Locarno, facendosi riconoscere come uno degli emblemi del lavoro filmico che da qualche tempo caratterizza un gruppo di registi legati al Sensory Ethnography Lab di Harvard, diretto proprio da Castaing-Taylor. Il laboratorio della prestigiosa università statunitense, che coniuga ricerca estetica ed etnologica, indagine sulle forme estreme della percezione delle immagini e dei suoni (del mondo), è diventato, ormai da qualche anno una realtà riconosciuta, un luogo fecondo in cui pratica teorica e filmica si incrociano felicemente. Film come Foreign Parts (2010) di Véréna Paravel e JP Sniadecki, Sweetgrass (2009) di Ilisa Barbash,  People’s Park (2012) di JP Sniadecki e Libbie Dina Cohn sono solo alcune delle tappe di un’esplorazione senza fine della potenza del cinema come dispositivo di interrogazione ed esplorazione del mondo. Nei film del gruppo di Harvard i luoghi e i corpi esplorati non sono spazi “oggettivi”, separati, misurabili; che sia un quartiere newyorkese marginale, separato dal mondo rutilante della grande mela (Foreign Parts) o un parco pubblico cinese, attraversato per ottanta minuti in un unico piano sequenza da una camera attenta a cogliere le sfumature di un intero mondo in uno spazio qualsiasi (People’s Park); o che sia la riscoperta di un mondo rurale quasi mitico che sopravvive nella contemporaneità (Sweetgrass), lo sguardo della videocamera è sempre uno sguardo immersivo, che pensa il cinema come esperienza sensoriale, non come descrizione oggettiva (illusoria) di ciò che si sta guardando.

 

Leviathan, il film manifesto del nuovo cinema “sensoriale” del gruppo di Harvard estende ulteriormente la messa alla prova “fisica” dello sguardo. Girato sia con una serie di videocamere versatili, come le GoPro, che i registi pongono in ogni luogo possibile, sia con camere ad alta definizione Sony come le EX3 o EX1, il film non racconta, ma riattraversa letteralmente il viaggio di una baleniera moltiplicando indefinitamente i punti di vista, dentro e fuori la nave, sopra e sotto l’acqua, dal cielo e dalla terra, accompagnando il volo di gabbiani o immergendosi con la catena dell’ancora sin sotto la superficie del mare. Il viaggio diventa percezione pura (anche sonora), una sorta di lotta perenne dello sguardo e dell’udito nel tentativo di riuscire a catturare un’esperienza; come afferma Véréna Paravel: «Si è trattato di una continua ricerca per catturare l’esperienza di essere lì. Non avevamo nessuna intenzione prestabilita, semplicemente condividevamo il fatto di credere che fare cinema non è comunicare una singola idea, è una forma di impegno con il mondo».

 

leviathanUna forma di impegno con il mondo significa anche insieme al mondo, pensare il cinema  come qualcosa che appartiene al mondo, che è immerso in esso (per questo può restituire un’esperienza, un essere-con, un sentire comune). Ma facendo questo, l’esperienza cinematografica diventa anche altro, riscopre una potenza che non è appunto solo descrittiva, ma evocativa, e finanche mitica. Il mondo non è solo percezione, ma anche pensiero, mito e racconto. Leviathan è, da questo punto di vista, esemplare. L’esperienza sensoriale è sempre qualcosa che porta il cinema del reale appunto verso i territori del mito e della parola. Il viaggio della baleniera del film diventa allora quasi il sogno di Moby Dick, la concretizzazione del mostro di Melville e del gigante mitico che emerge dagli oceani, il Leviatano. Ecco allora emergere una narrazione senza racconto, la memoria di un mondo fatto di parole e di immagini mitiche. La potenza del cinema non è altro, forse, che l’analogon della potenza del mondo, l’espressione di una lotta senza fine e senza tempo (come già nella pesca dei tonni di Rossellini in Stromboli, o nella Spadara di De Seta ne Lu tempo de li pisci spata). Leviathan è questo e forse anche altro. Di certo, è il film più teorico ed esteticamente radicale del gruppo di Harvard, di certo è un film che nel 2012 ha aperto (o ha portato avanti) un modo di pensare e fare cinema che difficilmente resterà senza sviluppi, al di là di ogni separazione tra finzione e documentario.

 

 

IL TRAILER DI LEVIATHAN

Leviathan Trailer July 2012 from Sensory Ethnography Lab on Vimeo.

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